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L'intervista

La storia Candita del fumetto sopraffino

Giuseppe Candita è uno dei disegnatori italiani più raffinati: talento, precisione e un amore profondo per il fumetto si riflettono in ogni tavola che realizza, da Diabolik a Zagor, a Charles Manson

In questa chiacchierata, Giuseppe si racconta a cuore aperto: dagli inizi con i manga e l'incontro decisivo con Corrado Roi, fino ai lavori più recenti, condividendo consigli sinceri per chi sogna di fare questo mestiere e tante curiosità sul dietro le quinte di alcune delle serie più amate del fumetto italiano.

Ho avuto il piacere di conoscere Giuseppe Candita durante il Taranto Diabolik Days 2025, dove era tra gli ospiti insieme ad Antonio Muscatiello. Sin da subito mi ha colpito per la sua disponibilità, la simpatia e quella passione genuina che trasmette parlando del suo lavoro. È uno dei disegnatori più apprezzati dai fan di Diabolik – e non è difficile capirne il motivo: talento, precisione e un amore profondo per il fumetto si riflettono in ogni tavola che realizza. Candita non si limita però al Re del Terrore: è attualmente al lavoro su una storia di Zagor, scritta da Luca Barbieri, con protagoniste due donne forti e affascinanti, e in passato ha disegnato personaggi iconici come Tex e Julia – Le avventure di una criminologa. Oltre al fumetto seriale, ha firmato anche graphic novel molto intense, tra cui il volume dedicato a Charles Manson per la collana The Real Cannibal, in collaborazione con Andrea Cavalletto – un progetto cupo e impegnativo che mostra un lato diverso della sua produzione.

In questa chiacchierata, Giuseppe si racconta a cuore aperto: dagli inizi con i manga e l'incontro decisivo con Corrado Roi, fino ai lavori più recenti, condividendo consigli sinceri per chi sogna di fare questo mestiere e tante curiosità sul dietro le quinte di alcune delle serie più amate del fumetto italiano.
Giuseppe, come hai scoperto la tua passione per i fumetti? Ricordi il primo che hai letto?
Avevo 14 anni, più o meno, ed era quell’età in cui avevo scoperto i fumetti Bonelli, soprattutto Dylan Dog, che mi aveva assolutamente rapito all’istante. Successe che, mentre stavo leggendo il fumetto a casa, mi ha visto mio zio che mi ha detto che conosceva Corrado Roi, sapeva dove abitava e allora gli ho chiesto se potevo andare a portargli qualche disegno. Sono andato semplicemente a casa sua, ero riuscito ad avere un appuntamento tramite mio zio, armato di uno zaino pieno di disegni, tra l’altro manga, perché in quel periodo disegnavo solo con quello stile lì. Ho bussato, lui è stato molto gentile, mi ha dato tutte le nozioni iniziali, la prima infarinatura di questo mestiere, non lo dimenticherò mai. Quando ha visto tutti questi disegni giapponesi mi ha chiesto: «Ma tu scusa, che lavoro vuoi fare? Che cosa vorresti fare un giorno? In Italia le case editrici non fanno queste cose, i manga sono tutti di importazione, se vuoi lavorare in questo settore devi esercitarti nelle serie italiane».
Dopo abbiamo fatto amicizia e da lì in poi ho incominciato a impratichirmi in quella che era la scuola Bonelli. Corrado seguiva i miei progressi, mi ha dato un’immensità di consigli, mi ha consigliato molti autori da studiare come Sergio Toppi, la grande scuola americana, insomma tutti quegli autori che hanno fatto la scuola.
Quando hai capito che potevi fare fumetti professionalmente?
L’ho voluto fare a tutti i costi, ho fatto tantissime rinunce, sacrifici, scelte difficili nella vita, ma volevo farcela e basta. Del resto sono un Ariete ascendente Ariete. Fin da quando avevo quattordici anni avevo le idee chiare, i fumetti mi piacevano così tanto che avevo deciso: un giorno dovrò disegnare. È stato importante avere nello stesso paese una figura come Corrado Roi, che era la dimostrazione pratica che potevi vivere di quel lavoro, non era una fantasia.
Cosa consiglieresti a un ragazzo che ha il sogno di diventare fumettista?
C’è una frase che dico sempre ai ragazzi quando li incontro per la prima volta: «Dovete immaginare che avete davanti a voi una scalinata molto ripida, non è semplice e la dovrete fare con il ginocchio».
Una volta arrivati in cima vi renderete conto che c’è già tanta gente, quindi o sei veramente deciso a fare questo lavoro, altrimenti puoi fare un corso, puoi andare a scuola per imparare un mestiere o per aumentare le tue capacità artistiche. Io l’ho sempre vista così, ho fatto davvero tanta fatica per arrivare dove sono, poi sai, è anche vero che non è per tutti uguale, ognuno racconta la propria esperienza.
Giuseppe, ormai sei lanciatissimo, lavori per la Bonelli con Tex, per l’Astorina, hai realizzato graphic di successo… Sono curiosa di sapere se per te è stato difficile rapportarti con due personaggi così iconici e amati.
Sono conscio, contento e felice. Mi sono misurato con due leggende italiane, Tex e Diabolik, fortunatamente in tutti questi anni ho avuto la possibilità di imparare bene questo mestiere soprattutto con l’esperienza fatta pagina dopo pagina con tanto studio, e questo mi ha permesso di illustrare questi personaggi come se fossero parte della mia famiglia, perché li conosco da sempre, da quando ho iniziato a leggere.
Conosco Tex e Diabolik da così tanti anni che fanno parte di me, quindi in realtà ho dovuto solo avere un approccio professionale. Ho abbracciato il lavoro con rispetto e seguendo le linee guida da cui non si può uscire, e basta.
Diabolik e Tex hanno molto in comune da questo punto di vista, nel senso che ci sono dei dogmi da cui non si può uscire, e diventa problematico quando un autore vuole farlo. Insomma, sono due leggende, bisogna rispettarle, come pure va rispettato chi, sceneggiatore o disegnatore, c’è stato prima di te, lo studio fatto sul personaggio, le migliaia di lettori che vogliono quel prodotto.
Capisco bene, sono una lettrice anch’io e ammetto che non amo troppo i cambiamenti, del resto che Dylan sarebbe senza la camicia rossa e la giacca nera? Cito per fare un esempio, ma sono molti i personaggi che hanno caratteristiche di stile precise. Parlando di Diabolik, nel disegnarlo hai avuto degli autori di riferimento?
Il primo che mi viene in mente è Montorio, anche lui ha segnato tantissimo il personaggio, però diciamo che da un punto di vista iconico Diabolik è quello di Sergio Zaniboni, si parte da lì, poi chiaramente cerchi di farlo tuo, però qui faccio riferimento ai dogmi di cui ti parlavo prima: devi comunque rimanere fedele a certi lineamenti da cui non devi uscire.
Quando disegni Diabolik non puoi fargli assumere atteggiamenti troppo strani, vale anche per la sua compagna.
Eva è molto elegante, non puoi farla con un pantaloncino e la pancia di fuori, per esempio.
Sono nel tuo destino le donne iconiche, il riferimento è ovviamente a Julia (Bonelli Editore) che è notoriamente ispirata ad Audrey Hepburn.
Ho una grande passione per la figura femminile, tant’è vero che nei miei primi lavori, quando cercavo di imparare, mi venivano molto meglio, più naturali, come se fossi predisposto più per quella che per la maschile.
In realtà ho dovuto studiare molto di più per la figura maschile che per quella femminile, credo sia dovuto al fatto che amo la donna come creatura, come si muove, la grazia che traspare dalla sua gestualità.
Anche solo se vedo una donna seduta al bar, con la gamba che continua a muoversi… un uomo al massimo batte il piede perché è nervoso, tutto quel tipo di gestualità femminile l’ho sempre trovata adorabile, anche solo a guardarla.
Tra Julia o Eva Kant, chi ti ha dato più problematiche, dal punto di vista del disegno ovviamente?
Se stiamo parlando a livello di illustrazione libera non c’è nessun tipo di differenza, ma occorre conoscerle e rispettarle.
Sono due personaggi così diversi, anche solo per come si muovono all’interno della gabbia (stiamo parlando della struttura grafica del fumetto, n.d.r.), che è diversa dagli spazi che hai nella realtà. Non ho avuto differenze se non quelle professionali, per il resto identico lavoro per quanto riguarda la naturalezza nel disegnarle.
Hai disegnato uno degli albi più belli dell’ultimo periodo di Diabolik, mi riferisco a La confraternita, scritto da due veri big della sceneggiatura: Tito Faraci e Mario Gomboli...
Ho adorato molto disegnarla, soprattutto come lettore. Quando ho letto il canovaccio della storia mi sono detto che avevo voglia di disegnarla.
I disegni sono stati realizzati in analogico?
L’ho fatto in maniera diciamo elettronica, disegnato a mano ma su tavoletta piuttosto che su carta.
Al momento su cosa stai lavorando?
Sto concludendo una storia di Zagor che uscirà l’anno prossimo. Non devo spoilerare troppo, ma posso dirti che non è una storia breve e che la protagonista è fantastica, una donna con una personalità meravigliosa. Lo sceneggiatore è Luca Barbieri, che ha subito pensato a me per questa storia, tant’è vero che ci sono due protagoniste donne.
Hai mai pensato di disegnare Dylan Dog?
È un discorso particolare, nel senso che Dylan è un personaggio che io amo alla follia, ma non ho mai capito se è un amore impossibile, nel senso che sulla carta sembra ci siano tutte le possibilità perché io lo possa illustrare, e non è detto che un giorno questo non possa accadere. Per il momento è un personaggio che adoro, che è dentro di me perché sono cresciuto con quello che ha scritto Tiziano Sclavi, con grandi autori come Corrado Roi, Giovanni Freghieri, Giampiero Casertano, insomma adesso non posso nominarli tutti perché sono troppi. Si imparava a disegnare e ci si innamorava di quelle storie!
Colgo l’occasione per fare i complimenti a Barbara Baraldi, perché sta facendo un lavoro secondo me straordinario su Dylan, che non è un personaggio semplice. Sono tornate le storie di cui siamo un po’ innamorati tutti noi, quelle che non finiscono un po’ alla vecchia maniera.
Non è semplice lavorare dopo Sclavi, perché lui ha una magia ed è proprio unico nel suo genere...
Sì, soprattutto fare il curatore di Dylan Dog è un lavoro molto complesso. Parliamo di una serie che viaggia sul filo dell’esoterico, dell’horror, di anime nere…
Parlando di anime nere, penso alla tua graphic su Charles Manson. Come è nato questo libro?
È un lavoro che è stato fatto con Edizioni Inkiostro nel 2010. In quel periodo la casa editrice si stava ingrandendo molto e c’erano alcuni miei colleghi sceneggiatori che già collaboravano con loro, tra cui appunto Andrea Cavalletta e la stessa Barbara Baraldi, che ha collaborato tanto con loro, tanto che ha fatto una serie. Insomma, c’era molto fermento, e la cosa bella di questo tipo di produzioni era che l’autore era al cento per cento libero di dare la sua impronta. In quel momento della mia vita mi piacevano molto i neri, le ombre, proprio quella sporcatura quasi angosciante e, parlando con Andrea, è venuto fuori questo progetto.
Come ti sei documentato?
La documentazione è stata una parte molto importante e, mi permetto di dirlo, anche angosciante. Se dovessi farlo oggi non so se riuscirei a farlo. Devo dire che otto/nove anni fa ero molto più giovane e avevo anche un’altra libertà mentale oltre che emotiva. Documentarsi su Manson è un’esperienza incredibile, importante anche il lavoro di Andrea Cavalletta, che mi ha dato molti documenti da leggere ma anche molto materiale fotografico e iconografico. Sono andato anche a recuperare i film, i documentari, ad ascoltare le canzoni che gli sono state dedicate, ho visto i processi, che sono online, per studiare i personaggi… è stato angosciante.
Sì, ho visto anche io qualcosa, è devastante…
Pensare che quello che stavo guardando, che stavo illustrando, non era una storia fantasy ma horror vero… Ci sono dei momenti in cui, mentre li disegnavo, ho avuto momenti di blocco perché è proprio pesante.
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