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L'intervista

Per Mattia Tassaro "Morire non importa": ciò che conta è farlo con "The Cure"

Una graphic novel che è molto più di un tributo visivo: è un viaggio nell’estetica dark degli anni ’80, nella potenza evocativa dei testi della band e nell’immaginario profondo che ha reso i Cure una leggenda.

Mattia Tassaro, napoletano, classe 1996, è diplomato alla Scuola Internazionale di Comics e laureato in Design della comunicazione presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli.

Con Morire non importa. The Cure: le radici del mito, Mattia Tassaro firma una graphic novel che è molto più di un tributo visivo: è un viaggio nell’estetica dark degli anni ’80, nella potenza evocativa dei testi della band e nell’immaginario profondo che ha reso i Cure una leggenda. In questa intervista, Tassaro racconta il suo percorso di disegnatore, il legame tra design e narrazione per immagini, il lavoro a quattro mani con lo sceneggiatore Lorenzo Coltellacci, e quella tensione creativa che nasce quando si disegna la musica, trasformandola in racconto.

Mattia Tassaro, napoletano, classe 1996, è diplomato alla Scuola Internazionale di Comics e laureato in Design della comunicazione presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. Per Bagari Edizioni ha illustrato il suo primo libro, scritto da Roberto Oliva, Il tempo che trovi e altri racconti (2020) e con Nuova Editoria Organizzata, da lui co-fondata, Grumvalski. Good Men Bad Things, scritto da Salvatore Vivenzio (2023). Per Feltrinelli Comics ha disegnato È mia la colpa. La vita dei Joy Division (2024) e Morire non importa. The Cure: le radici del mito (2025), entrambi sulle sceneggiature di Lorenzo Coltellacci.

Mattia come è nato il tuo incontro con il fumetto?
Fin da piccolo. Come molti che iniziano a disegnare, ho cominciato disegnando personaggi che guardavo come Batman di Tim Burton e i personaggi classici Disney, oltre ad essere cresciuto con i fumetti che aveva mio padre. Alle elementari già raccontavo storie per immagini: facevamo dei piccoli fumetti in classe, con protagonisti noi stessi, spesso in gag comiche. Era un modo naturale di esprimermi. Più avanti, studiando prima alla scuola di comics di Napoli e poi graphic design all’Accademia delle belle arti di Napoli, ho capito che il fumetto era davvero il mio linguaggio: era lì che mi sentivo più a mio agio.

C’è un legame, secondo te, tra design e fumetto?
Assolutamente sì. Anche durante gli studi in Accademia ero più attratto dalla componente grafica che dalla pittura. Il graphic design mi ha insegnato molto: il bilanciamento degli spazi, la gestione del lettering, il peso del colore, della composizione. Tutte cose fondamentali anche nel fumetto. Senza contare l’uso dei software, che oggi è imprescindibile.

Che atmosfera hai voluto ricreare nella graphic novel?
Volevo raccontare un’epoca, e farlo in modo coerente. Volevamo che il lettore si sentisse davvero dentro quel mondo, come se stessimo pubblicando su una fanzine dell’epoca. Niente di troppo patinato o didascalico. Piuttosto, un’immersione vintage, anche graficamente.

Eri già fan dei The Cure?
Sì, anche se li ho approfonditi soprattutto lavorando al progetto. Li ascoltavo già, ma non ero un fan “storico”. Studiarli, vedere la risposta emotiva dei fan, mi ha fatto capire molto di più. Mi ha colpito da subito il contrasto tra le tematiche dei testi e il suono, quell’atmosfera sospesa, decadente. Uno dei brani che mi ha segnato è Lullaby, con quel sussurrare ipnotico… un brano che è già un fumetto, per certi versi.

Come ti sei documentato per i disegni?
È stato un viaggio. Sono partito dai Joy Division, dal fumetto americano anni ’80, cercando di trovare una via personale. Non solo un gusto estetico, ma un’immersione nel fascino visivo dell’epoca.
L’obiettivo era far sembrare il fumetto una narrazione contemporanea, quasi un oggetto uscito dagli anni ’80, non un racconto a posteriori. Ho evitato soluzioni facili o prevedibili.

La graphic novel come è stata realizzata?
Prevalentemente in digitale, anche se per alcune parti—soprattutto quelle oniriche—ho usato tecniche tradizionali, per ottenere determinati effetti. La colorazione, ad esempio, ha richiesto un mix tra digitale e interventi più “artigianali”.

Com'è stato lavorare con lo sceneggiatore Lorenzo (Coltellacci? Ormai siete alla seconda collaborazione dopo la graphic dedicata ai Joy Division
Bellissimo ed emozionante. C’è stata da subito una regia aperta. Si partiva dalla sceneggiatura, ma lui era sempre disponibile ad accogliere proposte visive o intuizioni narrative. Per esempio, la trovata della sequenza all'inizio in cui Robert Smith "diventa" la lampada di Three Imaginary Boys è nata da un mio spunto: volevo raccontarla in modo un po’ folle, surreale, e Lorenzo ha colto al volo l’idea entusiasta.

Quanto tempo è servito per realizzare il libro?
È stato un anno di lavoro intenso. Un tempo breve, se pensiamo alla mole di disegni, ma molto concentrato. Ogni fase ha richiesto un impegno altissimo fra cui anche un cartone animato che fà da trailer di lancio per il libro di cui vado molto fiero.

Hai una routine di lavoro precisa?
Dipende dal progetto e dalle consegne. Quando sono immerso in una graphic novel, divento una macchina da guerra incapace di staccare. Parallelamente, porto avanti commissioni private e/o progetti miei. Alcuni sono solo in fase di studio, altri sono storie che vorrei proporre. In questo momento,
però, siamo in fase di studio per il prossimo libro...

E se un giorno ti scrivesse Robert Smith?
Sarebbe meraviglioso. Ma sarei anche terrorizzato! (ride) È l’altra faccia della medaglia. Scherzi a parte, sarei davvero onorato di sapere l'opinione e magari gli apprezzamenti da un grandissimo artista come Smith.

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