IL MATTINO
I pensieri dell'Altrove
11.11.2018 - 00:49
Angelika e il suo lucifero, F. Cioni (galleria piziarte.net)
Nelle questioni che riguardano l’amore è bene entrare in punta di piedi, con prudenza e discrezione. Troppe sfumature, troppi contrasti, tante ansie. Ancora non abbiamo capito in modo chiarissimo perché ci si sceglie, perché scatta l’attrazione, perché si preferisce uno ad un altro, perché ci innamoriamo e ci perdiamo nella bolla, perché voliamo tre metri sopra il cielo, perché diventiamo dipendenti dal nostro oggetto d’amore. Ma sono domande così, senza destinazioni, di fronte a questo sentimento il ragionamento è sbilanciato e corre il rischio di diventare stucchevole, diciamo che è quello che è, motore potente che porta avanti il mondo e specularmente si inceppa in conflitti, dolori, tradimenti, delusioni, rotture. Ecco, le ragioni delle rotture possono, forse, essere più decodificabili. E infatti in un sondaggio, tempo fa, lessi che fra i dieci motivi universalmente riconosciuti -oltre alla gelosia, alle incomprensioni caratteriali, ai litigi violenti, alle famiglie impiccione, ai problemi economici- c’erano pure le ascelle con l’afrore selvatico e qualche dente cariato. Quindi una quantità variabile e soggettiva di motivazioni plausibili. Ora, al netto di queste sommarie considerazioni, l’elemento rilevante è che fra gli esseri umani si pratica l’amore, si vive con l’amore e con amore, si cerca l’amore e, in qualche occasione, tristemente si perde l’amore. La mia generazione, quella dei Beatles e dei Dik Dik, di G. Lorca e Pasolini, ci credeva veramente che l’anno 2000 segnasse il tempo della rivoluzionaria new age e della fratellanza cosmica, la mia generazione è stata quella che aveva desideri forti ma anche voglia di realizzarli con disciplina e impegno, non aveva a disposizione tutta una letteratura post moderna che si fa chiamare “rete”, “web”, “piattaforma mediatica”, aveva invece il senso della condivisione pratica e della parola parlata. I nostri rudimentali mezzi di comunicazione erano chiamati telefono fisso in casa e telefono a gettoni fuori casa. Erano gli unici convertitori di emozioni, confidenze, discussioni e partecipazioni. Ma quando, per esempio, cominciava una storia sentimentale, si tentava ragionevolmente di non farlo sapere troppo in giro. Restava ancora un fatto privato, intimo e riservato a se stessi. Figuriamoci quando la storia naufragava. Il pudore e l’orgoglio ferito, la tristezza ed un vago senso di fallimento ce lo impedivano. Ai nostri giorni, concettualmente distanti dai miei anni luce, ogni evento individuale diventa pubblico, una nuova relazione o la sua fine vengono buttate e spalmate sui social. Sembrerebbe uno schema per amplificare le emozioni fino a renderle inconsciamente incontrollabili oppure un tentativo per depotenziare un personale dolore attraverso una esposizione accelerata che ritorna come una forma di anestesia. Personaggi pubblici che annunciano con un selfie momenti privati, scatti fra le lenzuola, immagini incaute regalate al mondo che solo un attimo dopo giudica, critica, offende, deride. Non so, ma è come se la fragilità, con questi sussidi mediatici, si fosse rafforzata e avesse espugnato parti di noi che prima erano più protette e segrete. È come se nella moltitudine confusa cercassimo la consolazione e la cura. Come se dovessimo valutare la nostra identità con la misura di un click. Ma tutto è veloce e volatile, come uno sbadiglio annoiato e ingoiato fra i tanti. Resta il fermo immagine di un momento irripetibile convertito in una operazione di superficialità visiva, diventato di tutti. Ma nel profondo, dopo aver inviato le immagini, restano il dolore e la paura. Che fanno male. E l’elaborazione è lunga e faticosa, da vivere in una perfetta solitudine silenziosa. Altro che click.
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