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Hamelin, il virus della gratitudine

Gli effetti erano devastanti. Come mai l'informatico sapeva come sconfiggerlo? Dei bambini nessuna traccia: ognuno per proprio conto, dai quattro punti cardinali, come se fossero legati da un qualche strano legame psichico, tutti convergevano per poi disperdersi.

Hamelin, il virus della gratitudine

Un virus implacabile e inarrestabile aveva assalito il server di una potente multinazionale. Si trattava di un virus particolare: era composto. Tanti programmi di piccola dimensione che da soli non venivano nemmeno individuati dagli antivirus, perché innocui. Ma a intervalli regolari si assemblavano e assaltavano una parte del sistema, aggiravano o demolivano i firewall più potenti e divoravano letteralmente dati e software di esecuzione, cortocircuitando i comandi più protetti. Appena l'antivirus si muoveva per fermarlo i virus si separavano e sparivano ognuno per proprio conto, disperdendosi nei meandri del sistema.Lo avevano battezzato "la colonia dei topi". Gli effetti erano devastanti. Macchinari salvavita cessavano di funzionare in sala operatoria; sistemi di volo facevano cilecca in fase di atterraggio; tera e terabyte di dati cancellati dai sistemi anagrafici di tutti gli enti convenzionati; dati sanitari sensibili finiti in rete, in pasto a chiunque. Non vi era modo di fermare questa sciagura. Fino a quando uno strano tipo non si presentò negli uffici del direttore tecnico, sull'orlo del suicidio per la gravità della situazione. Offriva una soluzione. Inizialmente venne preso per matto ma poi riuscì a convincere i dirigenti. Era un genio e qualcuno se ne accorse. La soluzione prescelta era semplice. Se lo avete battezzato "colonia dei topi" avevate già la soluzione davanti agli occhi. Non bisognava scacciare il virus: occorreva solo attirarlo altrove.

Ed ecco che il piano prese forma. Con i dati forniti dalla multinazionale il nostro informatico mise a punto un piano. Un firewall mobile. Ciò che era stato concepito per rimanere fermo a presidio di un sistema divenne variabile. Per di più, non si muoveva verso qualcosa, ma scappava. E questa caratteristica incuriosì la colonia. Occorsero tre mesi per mettere a punto la trappola e circa quattro giorni, novantasei ore, cinquemilasettecentosessanta minuti, più qualche altro centinaio, per concludere la caccia. Come un coniglio finto, inseguito dai levrieri nelle corse dei cani, il software di protezione, che nulla proteggeva, finì in un angolo, inseguito da tutti i virus combinati. Quell'angolo aveva una sola porta di entrata. Nessuna backdoor, nessun passaggio segreto. Mesi impiegati solo per creare un bunker virtuale, che divenne una trappola per la colonia. Appena entrati il sistema venne isolato. Tutti i cavi si scollegarono e dei jammer potentissimi blindarono l'etere. Niente più uscì da lì. A livello di mondo materiale, il tutto altro non era che un hard disk portatile da sei terabyte. Al quale venne letteralmente dato fuoco, come in un auto da fé durante l'Inquisizione. Sollievo. Applausi. Gran sorrisi. Ma dopo due giorni di sonno il genio dell'informatica si presentò per il saldo. E venne cortesemente messo alla porta. Nell'emergenza, tra occhi umidi e sguardi disperati è facile fidarsi delle persone, che promettono qualunque cosa fino a che hanno paura. A dire il vero l'informatico non aveva preteso un prezzo esoso. Voleva in tutta onestà una parcella sostanziosa ma non certo da ricatto, considerato l'imminente fallimento della multinazionale, alla quale le cause in arrivo per i danni accaduti erano già il sestuplo del fatturato dell'anno precedente. Ma qualcuno cominciò a sollevare dubbi. Chi aveva scatenato il virus? Come mai l'informatico sapeva come sconfiggerlo? Che subito dopo il repulisti un gruppo terroristico avesse rivendicato l'opera, non bastava a fare chiarezza. Ma a dire il vero, chi è in malafede e deve firmare l'assegno, preferisce rimanere nel torbido. Dopo mesi di estenuante trattativa –certo non condotta con furbizia dall'informatico, pieno di rancore e quindi facile ad abbandonarsi a commenti sarcastici, quando non a veri e propri insulti– la questione arrivò in tribunale. La multinazionale preferì spendere il doppio in avvocati pur di riuscire a dimostrare che la task force era composta da esperti interni. Non poteva perdere la faccia dimostrando di non saper pulire il proprio letame. E ci riuscì. L'informatico perse la causa. E il senno. Colto da un serio esaurimento nervoso si rinchiuse in casa, giurando vendetta. Ma nessuno lo ascoltava più. E scomparve dal consesso civile. L’inverno passo, e poi ritornò. E passò un anno.

Da un mese il direttore generale dormiva male. In principio ci aveva riso sopra, cose da bambini offesi, sciocchezze. Suo figlio di cinque anni si rifiutava di dargli il bacio della buonanotte. È cresciuto, pensò la prima volta. Tra poco non vorrà farsi vedere mentre i genitori lo accompagnano a scuola e ci farà fermare un isolato prima. Ma dopo il bacio della buonanotte gli negò anche quello del buongiorno. A lui e alla madre. Il direttore generale aveva sempre pensato poco a queste smancerie, ma ora che non c’erano più cominciavano a mancargli. Dopo qualche giorno la preoccupazione sfocio in collera. Rimproverò il bambino che lo guardava quasi assente, con il suo telefonino sempre in mano, a giocare o guardare su youtube video di giochi che altri scartavano e montavano. Solo mentre parlava cominciò ad elaborare che un telefonino non poteva stare in mano ad un bambino per tutta la giornata. Fu quando glielo strappò di mano, ormai imbufalito, che il bambino ebbe la peggiore reazione mai registrata negli annali della sua famiglia. Proruppe in un pianto disperato, ma non era un pianto, era l’urlo ferino di una bestia impazzita. Il bambino si avventò sul padre, che non riusciva a fermarlo. Gli diede anche due schiaffi ma il bimbo non pareva curarsene: voleva il telefono. Sulle urla montò una crisi di tosse, devastante, inarrestabile. Il bambino non si calmava e il direttore generale si era seriamente convinto che suo figlio stesse morendo quando gli vide colare dalla bocca le gocce di saliva rossastra di una gola ormai grattata a sangue.  Il panico gli impediva anche di restituirgli il telefono, al quale non pensava nemmeno più. Fu il bambino che vedendolo abbandonato vi si butto sopra. Calmandosi d’improvviso.  Ora il direttore generale era a colloquio con il neurologo infantile al quale il pediatra lo aveva indirizzato e il dialogo non era per nulla tranquillizzante.

–Che significa che non è il primo, dottore? A me interessa mio figlio. Cosa gli è successo?–

–Guardi, signor direttore generale, abbiamo fatto tutte le analisi. Suo figlio fisicamente sta bene. È sano come un pesce. Quello che non riusciamo a capire è perché si comporta così. E le ripeto, non è il primo–

–Ma se state raccogliendo dati omogenei su un comportamento patologico avrete un nome per questo malessere, immagino. Si può sapere di cosa stiamo parlando?–

–Tristezza, signor direttore generale, malinconia. Non c’è altro modo per definirla. Suo figlio è depresso.–

–A cinque anni? Depresso?–

– Mi perdoni, depresso non è clinicamente esatto. Ma il fatto è che la parola tristezza non ha riscontro clinico. Eppure è così. Suo figlio è triste. E lo sono almeno altri sedici bambini, per quello che ho potuto riscontrare personalmente.–

–Non ci posso credere- il direttore generale era quasi divertito –Io mi rivolgo al neurologo infantile di più chiara fama della città per sentirmi dire che mio figlio è triste? E che non è il solo? E che terapia mi consiglia, dottore, il cinema? Il pallone?–

–Non sottovaluti il problema, signor direttore generale. Non è saggio far finta di niente quando un bambino è triste.–

La mattina del 23 giugno la moglie del direttore generale si svegliò con un senso di profonda inquietudine. Quella sensazione per la quale andando a dormire ricordi di aver lasciato in sospeso una cosa molto importante e che il sonno non aveva risolto ma, anzi, aggravato. Come del cibo in un piatto che la pigrizia non vuole ripulire e che il tempo e l’umidità riempie di mosche e di larve e incolla il piatto al cibo ormai marcito. Alzandosi dal letto si sentì come quel cibo incollato, e agitò la mano –come se fosse davvero circondata dalle mosche– davanti agli occhi semichiusi. La stanza del figlio era di fianco alla loro e come ogni mattina, prima di raggiungere la cucina per il primo caffè, gettò un occhiata distratta verso il lettino. Vuoto. Nel giro di un nanosecondo il sangue le salì tutto alla testa, tappando le orecchie mentre il cuore accelerò i battiti per rincorrere qualche goccia ancora raggiungibile. Una mano pesante compresse il petto della moglie del direttore generale mentre con l’ultimo barlume di lucidità tornava con la sguardo al proprio letto, casomai il marito avesse spostato il figlio mentre lei dormiva, o lo stesso bambino, avesse guadagnato il posto tra i genitori. Vuoto. Arrancò con le mani, per tentare quasi di spingere l’aria nei polmoni. Rimasero vuoti.

-No no no no no no no no no no no no dove sei amore mio dove sei no no no no 

Frugava ormai nei cassetti, dopo aver visto sotto il letto, e poi in cucina e poi in tutte le stanze. Ormai disperata non riusciva nemmeno a comporre il numero di telefono. Il direttore generale era fuori dalle sette. Non aveva degnato di un’occhiata il lettino prima di uscire. Troppe cose erano scontate nella sua vita. Da quel giorno non lo sarebbero state più. In altre occasioni niente lo avrebbe distolto dalla importante riunione mattutina. Ma quella mattina non poté tenere alcuna riunione. La metà dei componenti nemmeno si mosse di casa. L’altra metà, sempre di quelli con i figli, tornarono a precipizio indietro. I bambini erano spariti. Tutti. Al telefono del direttore generale risuonava una voce che poco aveva di umano. Era più un lamento bestiale, ferino, implacabile. La moglie non ragionava nemmeno più, continuando a ripetere il nome del figlio torturando il marito con un mantra: non c’è, non c’è, non c’è, non c’è… Nel quartiere trovarono porte aperte durante la notte; allarmi staccati; finestre spalancate; e sul selciato, in giro per le strade, i corpi dei bimbi che non ce l’avevano fatta a sostenere quella spaventosa evasione collettiva. Precipitati da casa propria, staccati dalle grondaie, scivolati da tetti incatramati, decine di bambini di ogni età si erano abbandonati alla sconfitta come dei lemming, accettando la loro sorte pur di non tornare indietro. La maggior parte ce l’aveva fatta, e se ne erano andati tutti. Le videoriprese delle telecamere di sorveglianza, ma solo quelle private, testimoniavano di questa devastante pervicacia. Il figlio del direttore generale si era alzato alle quattro del mattino –orario coincidente con quelli di tutti gli altri, ma proprio tutti– si era vestito con difficoltà, calzando le scarpe al contrario e indossando il cappottino sopra il pigiama. Poi aveva percorso il corridoio fino alla porta di casa e aveva aperto sbloccando il perimetrale con la chiavetta elettronica. Lui, che si era sempre rifiutato di aprire una porta, adesso sbloccava un allarme che non aveva mai dato segni di riconoscere. Il dolore liberò il mondo in quei giorni, per concentrarsi tutto nella città che era la sede della multinazionale. Anche la follia si moltiplicò, prendendo posto nel cuore ormai vuoto di madri e padri disperati, contando trionfante anche un paio di suicidi. Dei bambini nessuna traccia. Le telecamere di sicurezza delle strade si erano spente simultaneamente e dopo due mesi di ricerche solo nove di loro furono ripresi, ma per i genitori non fu una buona notizia. Erano in stato catatonico e non c’era modo di farli riprendere. Agivano meccanicamente e non riconoscevano nessuno. Il modo in cui se ne erano andati rendeva gli altri del tutto introvabili. Inizialmente si pensò, con irritante sicurezza, che una crociata dei fanciulli non poteva passare inosservata e che seicentoventinove bimbi in processione non sarebbero andati lontano. Analizzando meglio le tracce si comprese subito che non di una processione si era trattato, ma di centinaia di singole fughe. Il metodo era geniale: ognuno per proprio conto, ma dai quattro punti cardinali, come se fossero legati da un qualche strano legame psichico, tutti convergevano per poi disperdersi. Una settimana dopo la fuga, centinaia di bambini entrarono in un ipermercato svaligiandolo prima che potesse intervenire un numero di persone adeguato a fermarli. Una bottiglia d’acqua per uno, una scatola di cibo o una busta di salumi, tutto era stato ripulito.  Come una colonia di topi.

Il messaggio raggiunse tutti, ma proprio tutti. Sui telefoni, a cavallo di ogni applicazione di messaggistica conosciuto, sulle mail, con indirizzo del mittente ogni volta diverso, persino sui tabelloni pubblicitari collegati ad un wi-fi.

“Sono stato io. Dai telefonini è partito il segnale giusto. Come un piffero incantatore.

Non ero interessato ai soldi, né alla fama che mi sarebbe spettata di diritto per avervi salvati.

Volevo solo il rispetto che meritavo, e mi avete retribuito con il disprezzo, e l’ingratitudine.

La gratitudine. È questa la cosa più importante nella vita.

Non va richiesta. Mai. Non si può rinfacciare ad altri ciò che si è fatto per loro. 

È brutto, avvelena il bene che si è donato.

Ma chi riceve deve sempre ricordare, e far capire che non si è dimenticato.

Così, chi ci ha creato –qualunque nome egli abbia– vuole solo essere ripagato. 

A questo servono le preghiere.

Così un genitore fa con i figli.

Ogni cosa è per loro e non vogliono nulla in cambio, nulla, se non poter dare ancora.

Vogliono solo che un figlio non dimentichi, e che ricordi loro che non ha dimenticato.

Io non sono Dio, ma per un attimo sono stato padre di tutti voi.

E voi mi avete tolto tutto questo.

Mi avete negato la gratitudine.

Adesso capirete cosa significa quello che avete fatto.

Vi ho tolto la gratitudine che riceverete dai vostri figli. 

Vi ho tolto i vostri figli.

Non li rivedrete mai più.”

I bambini non furono più ritrovati.

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Marco Scillitani

Marco Scillitani

È nato nel 1967, il 23 novembre, giorno che gli ha consentito di festeggiare un compleanno indimenticabile con il terremoto del 1980. Fa l'avvocato non per vivere, ma perché lo trova interessante e, non avendo mai saputo usare le mani gli è parso il metodo più efficace per raddrizzare le cose storte. Insegna Magia e Formule all'Università, ma di nascosto. Chi lo ascolta crede che parli di Procedura penale. Solo il titolare della cattedra se ne è accorto ma fa finta di niente. Da piccolo ha cominciato a osservare quello che gli accadeva intorno, collezionando storie e territori immaginari. Quando qualcuno glielo chiede, le restituisce. Ma non si assume responsabilità.

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