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Storie & Geografie

L'obiettore

Le mie ipocrisie, le mie verità calate dall’alto, i miei pregiudizi, erano solo paura. Sapevo bene quanto poco contasse il mio piccolo, piccolo mondo...

L'obiettore

Chiamatemi Tommaso. Il cortile della parrocchia di Gesù e Maria è una allegoria della sorpresa. Sia che si acceda dalla sacrestia, sia che si entri dall’attiguo palazzo incastrato tra il portico e la chiesa, si presenta come uno spazio inaspettato, aprendosi da una porticina o da un sottoscala in uno slargo ampio quanto un campo di calcetto. In realtà, la destinazione iniziale doveva sicuramente essere quella di un campo di gioco poiché era circondato interamente da un alto sedile di cemento, distribuito su due gradoni. Lì stazionavamo nei periodi di bel tempo, muovendoci come la lancetta di un orologio lungo il perimetro del cortile, inseguendo il taglio dell’ombra che garantiva un minimo di frescura durante la canicola.
Dei vari gruppi che di volta in volta si muovevano come corpi autonomi, scambiandosi ogni tanto qualche cellula, a seconda della cordialità dei reciproci rapporti, noi eravamo il gruppo degli “obiettori”.  Mi trovavo con loro per comodità.  Oltre ad una sincera avversione per le armi da fuoco, non avevo particolari motivi per trovarmi proprio a Gesù e Maria. Non frequentavo con assiduità la chiesa e non era nemmeno la mia parrocchia. Ma mi ero presentato a padre Michele ed evidentemente ero stato preso in simpatia. Immediatamente la domanda di assegnazione era partita per il distretto militare e mi ero trovato a sostenere un colloquio con un maresciallo che non faceva mistero del disprezzo che nutriva nei confronti degli imboscati come me.
Il dialogo con il maresciallo sconfinava a tratti nel surreale.
– Così tu sei un pacifista? –
– No assolutamente – risposi pronto, d’istinto.
Il maresciallo (o ci sono sergenti nell’esercito? Mai saputo in verità) andò immediatamente fuori dei binari. La risposta andava al di là delle affermazioni previste dal suo protocollo.
– Ma non vuoi fare l’obiettore di coscienza? –e subito il macho in divisa si fece sentire – Mi stai prendendo per il culo? Credi che sia uno stronzo? – per fortuna si fermò alla seconda parolaccia.
– Certo maresciallo, ma questo non vuol dire che sono un pacifista. Solo, è che sono contro le armi da fuoco –
– E perché?? Sei non sei un pacifista che ti frega? –
– Perché così ammazzare qualcuno diventa facile, non hai responsabilità. Tiri un grilletto, premi un bottone e buonanotte. Chi sparge sangue invece si deve sporcare; deve prendersi la responsabilità di vedere spegnersi la vita che toglie –
– Io adesso ti faccio arrestare – Il verdetto uscì con calma dalla faccia di cemento che nel frattempo era venuta al maresciallo. –Ma non ti faccio arrestare perché sei un imboscato. Io ti voglio punire perché tu sei carne sprecata. Saresti stato un incursore modello –prese a parlare con sé stesso– ma adesso alla Patria non pensa più nessuno. Vai via, vai. Sparisci dalla mia vista! –
Non ebbi più notizie del maresciallo. Evidentemente non mi denunciò ed io passai l’intero anno tranquillo.
Intendiamoci: “tranquillo” è un concetto forse esagerato. Non avevo troppe intenzioni di fare le notti, di assistere gli stranieri, insomma, di avere problemi. Per fortuna potevo vendermi la mia abilità nello smanettare al computer. Padre Michele ne approfittò subito ed io mi trovai a svolgere il mio servizio editando i foglietti delle messe domenicali. Il mio turno iniziava quando gli altri obiettori, quelli che io chiamavo “i samaritani” finivano il loro. Aprivano le camerate verso le otto di sera, tenevano l’ordine durante la notte, dormivano con un occhio solo. Eppure vedevo Paolo, Pachi, Gianni, certo distrutti dalla fatica, ma non erano insoddisfatti come capitava a me alla fine di una giornata passata al computer della sacrestia.
Ma pure notandolo, la cosa non bastava a farmi incuriosire. Io dovevo diventare qualcuno, non avevo nulla a che fare con questa gente. Monder, un tunisino talmente ghiotto di aglio, che nemmeno la doccia cancellava il suo odore di rancido. E si che si lavava in continuazione. Belgacem, l’algerino sempre tranquillo, mai alterato come spesso capitava agli altri. E poi Colby. Quello che avrei finito per chiamare il “grande” Colby ed al quale mi sarei affezionato oltre ogni previsione. Venivano da lontano, avevano un’altra cultura, non era certo razzismo, ma qualcosa di peggio: disinteresse.
Fino a quando, dopo pochissimi mesi, la mia routine ordinata andò in frantumi.
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L’inverno era arrivato piuttosto presto e a novembre già faceva freddo. Le licenze arrivarono anche per gli obiettori e il centro di accoglienza si ritrovò sguarnito.
– Devi andare tu per la prossima settimana – mi disse a malincuore Padre Michele
E così si spalancarono quelle che per me erano le porte del Purgatorio.
Aprire la camerata verso le otto di sera non è difficile. Il bello è tenere fuori gli ospiti in esubero. Cacciare i portoghesi –guarda caso il nome di una nazione europea per definire i clandestini– era spesso pericoloso. Specialmente quando l’escluso sa che l’alternativa, in inverno, è una panchina per strada. Quindici giorni era il tempo massimo di permanenza. Era un centro di prima accoglienza, non si poteva stare troppo tempo. Ma vallo a spiegare ad un disperato.
Per venti posti quaranta persone chiedevano di entrare e per tenere il conto il responsabile aveva fatto stampare delle schede rudimentali, senza foto, con il solo nome e la data di ingresso. Una specie di biglietto. Toccò a me scoprire che a volte veniva messo in vendita.
Verso le sette e mezzo di sera l’inverno già si fa sentire. Davanti ai cancelli la gente si assiepava dalle cinque, riscaldandosi l’uno con l’altro, ma comunque impotenti contro un vento freddo che tagliava la faccia.
– Permesso, permesso! –
Per guadagnare il cancello bisognava attraversare quella montagna di carne, e fare attenzione che nessuno sgattaiolasse dentro mentre ci assestavamo per controllare i passi. Con me c’era Pachi, che oramai era già un veterano. Ma io, come al solito, dovevo fare le cose per bene. E così, all’ottavo ospite mi venne in mente di perseguire gli interessi del centro.
– Tu non sei Belarbidhi Moussa. Moussa lo conosco, è venuto a ritirare il passi da me – fermai un maghrebino che si era presentato sorridente –
– Io Moussa! – reclamò l’ospite
– No, Belarbidhi sta là dietro, girato l’angolo, che vede se riesci ad entrare. E adesso ve ne andate tutti e due. Il passi è confiscato!–
– Ma che cazzo stai facendo? – sibilò sottovoce Pachi – sei impazzito? –
– Noi siamo qui per controllare … – iniziai a pontificare – ma non feci in tempo nemmeno a finire la frase. Moussa si era avvicinato attraversando la strada mentre l’infiltrato aveva cominciato a blaterare in arabo, sempre più agitato.
– State calmi! – il muro mi avrebbe ascoltato con più devozione
Nel frattempo Moussa aveva tirato fuori un coltello e stava quasi per avventarsi, non so se contro di me o contro l’acquirente del suo passi quando Pachi si mise in mezzo, proprio nella direzione tra me ed il coltello, se fosse partito. Per fortuna non partì e i due se ne andarono in direzioni opposte, sempre urlando.
– Bravo!–
– Senti Pachi, ma noi non dobbiamo fare le cose secondo ordine?–
– No! Noi dobbiamo mantenerlo, l’ordine. Cosa credevi di fare? Non sei mica allo stadio. Questi non vengono a vedere una partita!! Qui la gente crepa di freddo e di fame. Non conta chi ha torto e chi ha ragione.–
– E tu cosa avresti fatto? –
– Lo sai quanti ne ho visti fare così? Li fai entrare. E poi, sopra, con calma, a stomaco pieno, gli spieghi che hai capito e che domani deve tornare il titolare del passi. Altrimenti se ne vanno tutti e due. A che serve fare come hai fatto tu? –
– Beh, Pachi, mi sa che hai ragione. Sono stato un idiota. A proposito, grazie. Potevi beccarti tu la coltellata. Ma perché lo hai fatto? –
– Non lo so. Mi è venuto. Se stavo a pensarci non lo facevo –
“se stavo a pensarci non lo facevo” tutto qua. Il gesto più da amico ricevuto nella mia vita fino a quel momento, e se stava a pensarci non lo faceva nemmeno. Chissà, forse gli amici sono quelli che fanno le cose senza pensarci.
Sopra, nel refettorio, pareva che nulla fosse successo. Gli ospiti si accomodavano, disciplinati, pronti per mangiare. Ma prima alcuni andavano a farsi la doccia. Proprio così, la doccia. C’erano solo tre gradi meno di fuori, e l’acqua calda nemmeno c’era, ma i neri, i senegalesi, gli ivoriani, i somali, non andavano a tavola senza prima essersi lavati.
Certo, se prima erano neri, poi uscivano blu per il freddo. Ma comunque lavati.
Non riuscivo davvero a capire. E non mi interessava. Dovevo solo finire il mio turno, il mio anno. La mia vita mi stava aspettando e non volevo farmi coinvolgere. Ma era sempre più difficile.
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Mentre io cercavo di mimetizzarmi, cercando di sembrare anche generoso e disponibile, il peggiore tra noi era invece Matteo, che non faceva mistero del suo disprezzo per chi era diverso.
– Sono tutti degli scrocconi – ripeteva. Dovrebbero andare a lavorare invece di infastidire le ragazze.
A chi cercava di fargli notare che ognuno degli ospiti, senza eccezione, si alzava per andare verso il duro lavoro alle quattro del mattino, e che mai nessuno aveva infastidito una ragazza, non opponeva alcun argomento logico, ma solo insulti. Per non parlare dei disabili. Carne buona solo per i forni nazisti. Poi gli toccò Rosiello.
Rosiello, lo conoscevamo solo per cognome. Viveva, sin da bambino, completamente paralizzato. Poteva muovere solo una mano e parlava con un quarto di bocca, sbiascicando le parole. Abbandonato dallo stato sociale, aveva chiesto aiuto in parrocchia e Padre Michele lo iscrisse nella lista degli obiettori.
Matteo si convinse ad andare solo quando il responsabile gli pose l’alternativa di lasciare il centro e tornare a fare il militare. Ma fin dal primo giorno minacciò di soffocare Rosiello con un cuscino, per mettere fine alle sue sofferenze ed alla rottura di scatole che gli era toccata. Matteo tornò dal primo turno stranamente silenzioso e due giorni dopo, rientrato il responsabile, si rifiutò di tornare in ufficio e restò con Rosiello.
Gianni Rosiello, scoprimmo dal manifesto il suo nome, morì nel corso del nostro anno. Al funerale io non andai. Era il mio giorno libero, capirete. Ma tutti mi raccontarono poi che Matteo piangeva come un disperato. Venimmo a sapere che il peggiore di noi, una volta staccato il servizio, passava tutto il tempo che poteva da Gianni Rosiello, dove aveva imparato a giocare a scacchi nel seminterrato umido e puzzolente dove gli era toccato in sorte di vivere e aveva avuto finalmente la fortuna di morire.
Ero a cinquanta metri da casa mia. Ero nato e cresciuto in quel quartiere. Eppure non avevo mai visto niente del genere passarmi sotto gli occhi. Ma continuavo a concentrarmi sulla mia vita. Con l’unica differenza che adesso cominciava a costarmi fatica il dovermi mimetizzare. Lo specchio mi rifletteva una immagine che la mia coscienza definiva senza mezzi termini come quella di un ipocrita.
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L’aria della città finalmente tornò a scaldarsi e senza far vedere un’ombra di primavera, a partire dalla fine di aprile arrivò direttamente un caldo torrido, che a giugno finì di asciugare le ossa degli abitanti di questo cosmo parallelo dove, senza riscaldamento ed aria condizionata, le stagioni ancora si misurano direttamente sulla pelle.
– No caldo così Morocco! – esclamava Ahmed ogni pomeriggio alle quattro, preciso come un orologio svizzero. Io ormai mi ero abituato ai ritmi del centro di accoglienza. Mi ripetevo che la notte univa due turni di fila e il giorno dopo ero libero, ma poi rimanevo sempre nel cortile, anche se non ero obbligato. Da noi era sbarcato da poco Gemalì Giaupi, un albanese grasso e tanto biondo da sembrare albino. Aveva fatto un corso da infermiere nel suo paese ed era diventato il primo soccorso del centro. Suturava piccole ferite, raddrizzava spalle lussate, insomma, due mani d’oro che lo avevano portato ad un permesso allungato.
Un giorno lo trovai sui gradoni, da solo, che piangeva guardandosi le mani.
– Gemalì, che c’è? – non era di queste persone mostrare debolezza. Non se lo potevano permettere.
– Guarda mie mani! Sono mesi che sposto rottami di ferro. Guarda i calli. Non potrò più suonare se continua così! –
Scoprii così che Gemalì aveva fatto il corso da infermiere, certo, ma il suo lavoro era un altro. Era un violoncellista. Lo portai a comprare mezza dozzine di birre fresche e ce le scolammo tutte mentre mi raccontava i successi che aveva avuto fin da piccolo. Fino a quando chiusero il teatro per mancanza di fondi e lui, pure dotato, non era abbastanza bravo per passare da orchestrale a solista.
– Ma ti immagini come ero con frac? – mi diceva ridendo, ormai brillo – un vero pinguino, con tutto questo grasso addosso.
– Allegro Gemalì: domani ti porto in campagna e ti metto le mani a mollo nell’olio – ridevo anch’io, ormai completamente andato – così vedrai come i calli se ne vanno –
Ma intanto, pur affogando il dispiacere nella birra, il problema del più sommo talento sorto altrove da qui, e finito a raccogliere pomodori o a spostare rottami, per quel pomeriggio rimase irrisolto.
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Padre Michele intanto si era rassegnato a perdere il mio aiuto nella sacrestia. All’ultimo foglietto della messa avevo aggiunto un passo della seconda lettera di San Paolo Apostolo al cognato. Era una lista della spesa e stava quasi per andare in stampa. Padre Michele si era incazzato così tanto che credevo gli venisse un infarto. Poi aveva decretato la sua punizione.
– Tu torni a fare le notti –
E così il gioco era fatto.
Ma il mio anno era quasi giunto al termine e finalmente potevo tornare alle mie occupazioni, senza perdere le mie giornate ad aprire il cancello, servire a tavola, passare la notte con … non li chiamavo più “sfigati” da mesi. Come facevo a definire Belgacem uno sfigato? Un ingegnere specializzato in fisica nucleare, che maneggiava macchinari per prospezioni minerarie nel Sahara, che mi ha dimostrato che il deserto era una foresta, milioni di anni fa, e che una sera venne licenziato in tronco perché aveva rotto un piatto.
Dovevo ammetterlo. Più si avvicinava il mio congedo e più ero nervoso.
Volevo tornare al mio lavoro. Mettere mano ai miei progetti più ambiziosi e “volare alto”. Ma ormai mi guardavo dentro, e comprendevo come suonasse ridicola e stupida una frase del genere. Fossi anche diventato un grande, in qualunque cosa, di fronte all’ultimo ospite del centro sarei rimasto un minuscolo uomo con la strada in discesa.
Certo, sarei tornato nel cortile qualche volta, ma già mi vedevo come un estraneo, qualcuno che gli altri obiettori avrebbero guardato dall’alto in basso mentre raccontavo le mie storielle da reduce. Alla fine avevo capito. Le mie ipocrisie, le mie verità calate dall’alto, i miei pregiudizi, erano solo paura. Sapevo bene quanto poco contasse il mio piccolo, piccolo mondo di fronte al resto del pianeta che stava chiedendo il mio aiuto.
E così, due settimane dopo il congedo, andai a cercare il responsabile del centro per pregarlo di farmi sapere di cosa aveva bisogno.
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Ora ve lo posso dire. Il mio vero nome è un altro, non Tommaso.
Però chiamatemi Tommaso.
Perché ho visto.
Ed ora ci credo.

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Marco Scillitani

Marco Scillitani

È nato nel 1967, il 23 novembre, giorno che gli ha consentito di festeggiare un compleanno indimenticabile con il terremoto del 1980. Fa l'avvocato non per vivere, ma perché lo trova interessante e, non avendo mai saputo usare le mani gli è parso il metodo più efficace per raddrizzare le cose storte. Insegna Magia e Formule all'Università, ma di nascosto. Chi lo ascolta crede che parli di Procedura penale. Solo il titolare della cattedra se ne è accorto ma fa finta di niente. Da piccolo ha cominciato a osservare quello che gli accadeva intorno, collezionando storie e territori immaginari. Quando qualcuno glielo chiede, le restituisce. Ma non si assume responsabilità.

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