Cerca

Storie e Geografie

Una causa civile

Il malumore è contagioso, come il dolore. Cominciavo lentamente a comprendere perché chi avesse una causa in corso veniva ricoverato. Le udienze si tenevano davanti ad un primario monocratico o ad un collegio sanitario. Le aule erano comunque anguste.

Una causa civile

La citazione a giudizio arrivò il venerdì sera. Giusto in tempo per rovinarmi il weekend. Ero appena rientrato in casa che il postino mi chiamò sul portone

“Signor Samsa?! Una raccomandata per lei” la busta verde si vedeva da lontano: atti giudiziari, uguale grane, problemi, e forse la rovina.

“Allegro! È una causa civile –disse il postino- Quelle penali non le portiamo noi, Le mandano con la Polsanità”

“Vabbè –bofonchiai impaurito– tanto io ho la coscienza a posto” 

Il postino nemmeno rispose. Raccolse la mia firma e se ne andò con un ghigno stampato in faccia che restituiva quello che silenziosamente pensava “lo dicono tutti”.

L’ingresso in casa non fu dei migliori.

“Ciao amore.” Mia moglie fece il solito cenno di bacio ma, come sempre, si era già girata lasciandomi con la bocca a punta nel vuoto.

“Mi hanno citato in giudizio”

“Parla con tuo figlio per favore, non vuole finire i compiti. Io sono esasperata.” Rispose dall’altra parte della casa.

“Mi hanno notificato una citazione”

“Non è che posso sempre stargli dietro. E tua madre poi gli da manforte”.

“È una causa civile”

“Quando andiamo da Sergi? Mica ci tiene da parte la roba per sempre. Quello deve pur vendere.”

“Teresa!”

“Si? Ma che hai da urlare?? Io non capisco, sto sempre lì ad ascoltarti e tu urli così? A proposito, lo sai che Lillino ha visto…?”

“Teresa, vado a processo”

“…?”

“Si. Mi hanno citato in giudizio”

“Oddio!”

“Devo partire, mi devo ricoverare. Non so quanto ci vorrà”

“Ma Luca, e tu che hai fatto? Non vi potevate mettere d’accordo? Ma chi è stato?”

“Ecco, leggi: tuo cognato, per quell’affare delle forniture al Ministero. Vuole la metà perché lui mi ha trovato i camion per il trasporto delle merce. Ho letto in ascensore velocemente. Non gli basta quello che gli ho dato. Dice che siamo soci.”

“Ma non è giusto! E le spese? E la struttura? Così a te non rimane niente?”

“E la tangente? Te la sei scordata? E lui lo sa, quello stronzo. Ma ho le mani legate.”

“Non cedere! Parlo io con mia sorella. Vedrai che …”

“Lascia perdere. Domani vedo se riesco a parlare con il medico e poi decidiamo il da farsi.”

Quella notte la passai in bianco. Fu un continuo pensare e ripensare ad una via d’uscita ma era inutile. Non c’era. Il giorno dopo rintracciai il medico al cellulare. Lo studio era chiuso ma per me avrebbe fatto un’eccezione e ci saremmo incontrati al bar sotto casa sua.

Alle undici ero lì, mentre lui mi fece aspettare venti minuti. Un segno di potere, far aspettare le persone. Si presentò in borghese, senza camice, e chiese subito senza preamboli, di vedere la citazione. Due domande ed aveva già inquadrato la situazione, dandomi poche speranze.

“Sarà dura.”

“Ma noi non siamo soci”

“Non si parla di società. Il suo medico la qualifica come associazione in partecipazione. È diverso. Bisogna calcolare il suo apporto nell’affare e non sarà facile. L’istruttoria in questi casi è complessa”

“Allora cosa devo fare’?”

“Faccia la valigia. La citazione è per il 20 aprile. Entro il 10 si deve ricoverare.”

La sera prima salutai la famiglia, già rassegnata a non vedermi per molto tempo, e il 10 aprile entravo in Tribunale con la mia valigia e le mie carte. Mi diedero un letto nella corsia dei convenuti, per le causa di scaglione superiore ai cinquantamila euro. La postazione assegnatami per la cura dei miei affari era comoda ed i collegamenti veloci. Per fortuna potevo ricevere visite: la causa era civile. I processi penali invece erano un disastro per gli imputati. In stato di libertà si potevano ricevere visite ma la postazione di lavoro era un sogno. Chi poteva lavorare d’altronde con un processo pendente? Da anni avevano deciso di toglierle per limitare le spese inutili.

I primi tre giorni ne approfittai per fare un giro tra le corsie. Con il pigiama addosso ero praticamente invisibile. Il Tribunale della città era nuovo, appena vent’anni, e costruito con tutti i moderni ritrovati. I reparti del civile erano molto ben curati. Nella volontaria giurisdizione –tutele, curatele, successioni ereditarie– si poteva anche stare senza pigiama. I medici giravano dappertutto, con i camici bianchi e gli alamari di diverso colore. Dorato per i medici di cassazione, argentato per i medici delle giurisdizioni di merito, rosso per gli abilitati alle cause con possibile esito mortale, tipo assassinio o oltraggio ad autorità sanitaria in udienza. Reati punibili con la pena di morte. Le udienze si tenevano davanti ad un primario monocratico o ad un collegio sanitario. Le aule erano comunque anguste. Di regola si sarebbe dovuto entrare uno per volta, ma in realtà si infilavano tutti insieme in sala per ammucchiarsi davanti al Primario, separati dal tavolo operatorio dove l’ordine veniva garantito ogni tanto con colpi di martelletto neurologico. Lo stesso che veniva usato per gli interrogatori formali delle parti in causa.Nei reparti del settore penale non era possibile entrare. Infermieri grossi come orsi delle caverne impedivano ogni ingresso non autorizzato, mentre l’odore di stantio e di muffa proveniente dal corridoio restituiva l’immagine delle camere senza aria condizionata e priva di arredi, dove gli imputati delle corsie dei presunti innocenti giravano in tondo per l’intera giornata.

Il giorno dell’udienza arrivò velocemente ma si risolse in un nulla di fatto. Arriva il mio medico, una stretta di mano, due parole incomprensibili e subito a discutere cordialmente con il medico di mio cognato, per occuparsi poi ognuno dei propri affari. Dopo due ore si ritrovano insieme davanti al primario. Due parole in codice e rinvio a novembre. Sette mesi!

“Ma dottore! Cosa faccio qui fino a novembre?”

“Pazienza amico mio. Bisogna avere pazienza. D’altra parte, ci rimane anche tuo cognato. E nel reparto degli attori citanti in giudizio non ci sono nemmeno i letti. Solo sedie.”

Solo in quel momento vedevo mio cognato. Lui era entrato in tribunale dal giorno della citazione, 90 giorni prima di me, e da allora viveva su una sedia, dove la notte era costretto a dormire.

--------------

Il quarto giorno dopo l’udienza le visite cominciarono ad infastidirmi. Cosa ne sapevano queste persone dei miei problemi? Che diritto avevano di raccontarmi i loro affari quando io pensavo a cose ben più serie? Il peso e la terribile situazione di dover vivere immerso in un costante senso di impotenza non poteva essere condiviso in alcun modo. All’esterno usciva solo una petulante lamentela, incomprensibile per gli altri.  A volte lo dimenticavo. Per pochi, brevissimi istanti nel corso della mia giornata, concentrato in altro o perso in conversazione con amici o colleghi, afferravo un senso di serenità che quasi mi pareva irreale. Come un’immagine che passa di lato e si coglie solo con la coda dell’occhio e lascia solo il dubbio che sia reale. L’angoscia mi riprendeva subito, insieme al senso di colpa per essermi permesso, anche se per un momento, di dimenticare la causa nella quale ero coinvolto. L’odio sordo che provavo verso mio cognato si estese presto a tutti quelli con cui parlavo. Seguivo i mei affari con svogliatezza, confortato dal fatto che come ricoverato per causa giudiziaria alcune scadenze, non tutte, erano sospese. Sparsa però la voce del mio ricovero, erano pochi quelli che si facevano sentire. Come se la mia situazione mettesse in pericolo anche loro. Vero, in un certo senso. Il malumore è contagioso, come il dolore. Cominciavo lentamente a comprendere perché chi avesse una causa in corso veniva ricoverato. Cosa ci stai a fare in mezzo alla gente? A diffondere la tua negatività? Chiuditi in tribunale e non infastidire il prossimo.

I giorni ormai erano passati senza che me ne accorgessi. L’udienza di novembre arrivò, per essere rinviata di altri otto mesi. Ma ormai non me ne importava più. Avvertivo anzi la precisa sensazione che se fossi tornato a casa le cose non sarebbero più state uguali a prima. Tra la redazione di relazioni e manoscritti, la produzione di fotocopie e certificati, inviati al mio medico che regolarmente li cestinava, la mia vita era ormai concentrata su quella causa che ormai –fallita nel frattempo la mia azienda a causa della mia trascuratezza– andava avanti di per sé stessa, senza che nessuno dei due, io o mio cognato, volessimo più mollare la presa su quella che ormai era “una questione di principio”. I nostri medici se ne accorsero un mese dopo la seconda udienza e, come per legge, stilarono le opportune relazioni. La settimana successiva venimmo entrambi spostati di corsia, per trovarci, finalmente insieme, nel reparto delle cause croniche.

Commenta scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Il Castello Edizioni e Il Mattino di Foggia

Caratteri rimanenti: 400

Marco Scillitani

Marco Scillitani

È nato nel 1967, il 23 novembre, giorno che gli ha consentito di festeggiare un compleanno indimenticabile con il terremoto del 1980. Fa l'avvocato non per vivere, ma perché lo trova interessante e, non avendo mai saputo usare le mani gli è parso il metodo più efficace per raddrizzare le cose storte. Insegna Magia e Formule all'Università, ma di nascosto. Chi lo ascolta crede che parli di Procedura penale. Solo il titolare della cattedra se ne è accorto ma fa finta di niente. Da piccolo ha cominciato a osservare quello che gli accadeva intorno, collezionando storie e territori immaginari. Quando qualcuno glielo chiede, le restituisce. Ma non si assume responsabilità.

edizione digitale

Sfoglia il giornale

Acquista l'edizione