IL MATTINO
AntichiRitorni
03.09.2017 - 00:12
Il trionfo era la massima onorificenza per un condottiero romano, al punto che per impedirgli di innalzarsi troppo al disopra degli altri cittadini (col rischio di sbattere la testa per la superbia!), si narra che...
Sempre più in occasione di spettacoli, che siano di natura teatrale, musicale o finanche calcistica, si sente parlare di ‘ovazione’, standing ovation, se non addirittura di trionfo, trasponendo questi termini dal lessico militare da cui hanno avuto origine alla nostra lingua. Sebbene oggi siano usati quasi come sinonimi o in maniera interscambiabile, i termini latini “ovatio” e “triumphus” avevano una connotazione semantica ben precisa e diversa tra loro; per capirlo è bene risalire all’etimologia di questi vocaboli e per farlo ci serviamo del supporto degli stessi grammatici latini (chi meglio di loro?), come Servio, che osservava come la parola ‘ovazione’ derivasse molto probabilmente da “ovis”, ossia ovino, dal momento che durante la cerimonia di ovazione originariamente era sacrificata una pecora (a differenza del trionfo durante il quale si sacrificava un toro). Tuttavia, secondo Festo, la parola avrebbe avuto origine semplicemente dal suono onomatopeico che derivava dalla geminazione della lettera O. Nella fattispecie l’ovazione era un trionfo ‘minore’ - se così si può definire -, ossia una cerimonia per celebrare una vittoria (meno importante) e un vincitore che in pompa magna, vestito della toga praetexta e di una corona di mirto faceva il suo ingresso a Roma, procedendo fino al Capitolino dove avveniva il sacrificio per ringraziare gli dèi. Durante la cerimonia, come succede anche oggi, i presenti si alzavano in piedi e applaudivano con grida di giubilo il loro ‘eroe’. Se la vittoria era tale da non aver avuto eguali, invece, al vincitore era destinato il triumphus, ovvero il massimo elogio; tanto che il trionfatore era trattato per un giorno quasi come un dio. Entrava in città su di una quadriga (e non a piedi o semplicemente su un cavallo come per l’ovazione), vestito di toga picta (una speciale toga viola per l’occasione), coronato d’alloro e con uno scettro d’avorio; sfilava così fino al Campidoglio. Il trionfo era la massima onorificenza per un condottiero romano, al punto che per impedirgli di innalzarsi troppo al disopra degli altri cittadini (col rischio di sbattere la testa per la superbia!), si narra che, mentre questo godeva dei meritati festeggiamenti della folla, un uomo, collocato proprio dietro di lui sul carro trionfale, gli sussurrava continuamente nell’orecchio «Respice post te! Hominem te memento! (Guarda dietro te! Ricordati che sei un uomo!)». Oggi la magnificenza è rimasta tale, se non accresciuta da enormi spese, ma siamo sicuri che i nostri ‘trionfatori’ siano alla pari di chi più di duemila anni fa rischiava la vita, spesso assentandosi da casa per anni, nelle condizioni di vita più difficili? I tempi cambiano, questo è vero, ma siamo più attenti a decretare ovazioni e trionfi facili.
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