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Ecco come nacque il faro: Ero e Leandro

Lui si chiamava Leandro ed era un giovane perdutamente innamorato, lei, Ero, una sacerdotessa di Afrodite e pertanto costretta a non potersi unire a lui; tra di loro non solo c'era un 'divieto' ma un mare

Ecco come nacque il faro: Ero e Leandro

Lui abitava ad Abido, città dell'antica Misia, lei invece era di Sesto, una città del Chersoneso tracico (entrambe regioni dell'attuale Turchia); lui si chiamava Leandro ed era un giovane perdutamente innamorato, lei, Ero, una sacerdotessa di Afrodite e pertanto costretta a non potersi unire a lui; tra di loro non solo c'era un 'divieto' ma un mare, un piccolissimo lembo di mare, noto dapprima come Ellesponto, poi come stretto dei Dardanelli. Un mare - è il caso di dirlo - che per loro fu un "mare d'amore"*, perché ogni notte Leandro attraversava il tratto d'acqua che lo divideva da Ero per potersi unire a lei; ogni notte la ragazza metteva sulla finestra della torre in cui era rinchiusa (torre che si affacciava sul mare) una lanterna, affinché l'amato non perdesse l'orientamento e non andasse a sbattere contro gli scogli. In una notte di tempesta, però, il vento spense la lanterna, vero e proprio "faro" nell'oscurità, e le onde ebbero la meglio, così che lo sventurato Leandro fu 'inghiottito' dal mare. Il giorno dopo il corpo senza vita del giovane fu portato dalle acque sulla spiaggia di Sesto, dove lo ritrovò con somma disperazione Ero, che,  non potendo/volendo più vivere senza l'amato, si suicidò gettandosi dalla torre. Il mito è raccontato dal poeta latino Ovidio ed è un esempio di poesia eziologica, volta a spiegare la nascita del faro. Eh già, proprio quello (!) che ci sembra un'invenzione così moderna era in realtà un'intuizione di cui siamo debitori agli antichi Greci.

*rinvio all'esauriente documentazione contenuta nel volume "Ero e Leandro: un mare d'amore" di Giovanni Cipriani et alii, Taranto 2007.

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Alba Subrizio

Alba Subrizio

«E quel giorno che ha potere solo sul mio corpo e su null’altro, ponga pure fine, quando vorrà, alla mia vita. Con la miglior parte di me volerò eterno al di sopra degli astri e il mio nome non si potrà cancellare, fin dove arriva il potere di Roma sui popoli soggiogati, là gli uomini mi leggeranno, e per tutti i secoli vivrò della mia fama…». Così Publio Ovidio Nasone conclude il suo capolavoro “Le Metamorfosi”; sulla scia del grande Sulmonese. E, allora, eccomi qui a raccontarvi di miti, eziologie e pratiche del mondo antico… che fanno bene anche oggi.

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