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Egeo, padre di Teseo. Perché il mare si chiama così?

Una vicenda inerente all’antica Atene e a una questione di vele

Egeo, padre di Teseo. Perché il mare si chiama così?

Credendo che l’amatissimo figlio fosse morto, si gettò in mare. Proprio quel mare che oggi da lui prende il nome. Si compiva così l’oracolo: “un giorno ne morirai di dolore”...

Certamente ‘suonerà’ familiare alle orecchie dei più il nome di Teseo, l’incredibile eroe ateniese artefice della morte dello spaventoso Minotauro, mentre meno noto – forse – se non fosse per il mare che ne porta il nome, è Egeo, re di Atene e padre di Teseo. Dato che oggi festeggiamo la festa del papà, abbiamo pertanto deciso di parlarvi di un padre illustre. Ordunque, perché il mare che bagna la Grecia, dunque, si chiama proprio così? Egeo era figlio di Pandione, alla morte del padre riuscì a divenire re di Atene. Dato che non aveva figli maschi, si recò - come di consuetudine all’epoca – al santuario di Delfi per chiedere all’oracolo di Apollo cosa fare (un po’ come oggi i pellegrinaggi a Lourdes); il vaticinio del dio recitava pressappoco così: "Tieni chiuso il tuo otre di vino finché non avrai raggiunto il punto più alto della città di Atene, altrimenti un giorno ne morirai di dolore". Come sempre gli oracoli erano ‘oscuri’ e di difficile interpretazione! Intanto, saputo che il re cercava moglie, Pitteo, re di Trezene, dopo aver fatto ubriacare Egeo, lo convinse a prendere in sposa sua figlia Etra. Quando quest’ultima rimase incinta, Egeo volle tuttavia tornare ad Atene, lasciando lì la novella sposina (che galantuomo!) con una sola raccomandazione: che una volta nato il bambino, questi avrebbe dovuto raggiungerlo ad Atene, dopo aver recuperato i calzari, lo scudo e la spada che lui aveva nascosto sotto una pesante roccia. Come a dire: “crescilo tu, poi, quando si fa grande, mandamelo”. Nacque così Teseo, che, una volta raggiunta la maggiore età, riuscì a scostare la pensante roccia e a recuperare le armi paterne; così che decise di andare verso Atene per riportargliele. Intanto, però, Egeo, da ‘bravo marito’ qual era, aveva sposato Medea (proprio lei!). Quest’ultima, dopo aver fatto fuori a Corinto la novella sposa di suo marito Giasone e i figli avuti da lui, era fuggita, supplice, ad Atene, dove Egeo l’aveva accolta e resa sua moglie (dopotutto aveva solo trucidato i propri figli e bruciato viva la sua rivale… che sarà mai…), avendo da lei un altro figlio maschio: Medo. Capite bene che Medea non era proprio entusiasta che ora arrivava il primogenito Teseo a spodestare suo figlio, motivo per cui cercò di ucciderlo in tutti i modi, ma invano (forse aveva perso la mano). Riconosciuto in Teseo il proprio figlio, Egeo lo designò suo successore ma c’era un ‘problemino da risolvere’: ogni anno Atene inviava a Creta 7 fanciulli e 7 fanciulle che venivano dati in pasto al Minotauro, motivo per cui Teseo decise di recarsi a Creta per porre fine a tutto ciò. Una volta giunto sull’isola, sapeva bene che era impossibile districarsi nel leggendario labirinto di Cnosso, per cui sfruttò l’amore che Arianna (figlia di Minosse e sorella del Minotauro) nutriva verso di lui per farsi aiutare nell’impresa (chi non ricorda infatti la famosa ‘fabula’ del gomitolo?). Dopo aver ucciso il mostro però, da buon figlio di suo padre, non mantenne fede alla promessa fatta ad Arianna di sposarla (la fedeltà non era una virtù di famiglia) e la abbandonò su di un’isola deserta. Il mito racconta che, prima di partire, Teseo aveva detto a suo padre che se l’impresa fosse andata a buon fine avrebbe innalzato vele bianche al suo ritorno, se invece le vele fossero state nere voleva dire che aveva perso la vita. Preso dall’esuberanza giovanile, Teseo dimenticò di cambiare le vele e, vedendo avvicinarsi la nave con quelle nere, Egeo, credendo che l’amatissimo figlio fosse morto, si gettò in mare. Proprio quel mare che oggi da lui prende il nome. Si compiva così l’oracolo: “un giorno ne morirai di dolore”.

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Alba Subrizio

Alba Subrizio

«E quel giorno che ha potere solo sul mio corpo e su null’altro, ponga pure fine, quando vorrà, alla mia vita. Con la miglior parte di me volerò eterno al di sopra degli astri e il mio nome non si potrà cancellare, fin dove arriva il potere di Roma sui popoli soggiogati, là gli uomini mi leggeranno, e per tutti i secoli vivrò della mia fama…». Così Publio Ovidio Nasone conclude il suo capolavoro “Le Metamorfosi”; sulla scia del grande Sulmonese. E, allora, eccomi qui a raccontarvi di miti, eziologie e pratiche del mondo antico… che fanno bene anche oggi.

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