IL MATTINO
AntichiRitorni
29.01.2017 - 00:21
Tale era la fama di Catone, che morì stoicamente pur di rimanere fedele ai suoi ideali, che subito nacquero leggende: ad esempio, si narra che trascorse tutta la notte a leggere il “Fedone” di Platone, dopodiché si trafisse con la spada, e quando cercarono di fasciargli la ferita inveì contro le sue viscere per provocarsi una morte subitanea.
«Or ti piaccia gradir la sua venuta:
LIBERTÀ VA CERCANDO, ch'è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu 'l sai, che non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch'al gran dì sarà sì chiara»
Mi perdonino i miei lettori se ho deciso di aprire il blog odierno con un passo della Commedia dantesca (Purg. 1, 70-75 per la precisione); lungi da me la volontà di fare una lezione di critica dantesca, mi piaceva l’idea di presentare attraverso le parole del sommo poeta il grande Catone Uticense. Uomo politico romano del I sec. a.C., Marco Porcio Catone fu soprannominato Uticense perché morì nella città africana di Utica (nell’attuale Tunisia). Qui – si racconta (la nostra principale fonte è Plutarco) – era giunto Catone, con un contingente di suoi fautori, e qui si diede la morte, trafiggendosi con la spada per non cadere nelle mani di Cesare. Ci troviamo, infatti, nel 46 a.C.; qualche anno prima, precisamente nel 49, Cesare varcava il Rubicone, decidendo di fatto di oltrepassare con le truppe il “pomerium”, ossia il confine sacro e simbolico che delimitava il territorio di Roma, nel quale era proibito entrare armati. Col suo getso Giulio Cesare aveva quindi infranto un divieto politico, civile e religioso, manifestando apertamente la sua volontà di capovolgere la Repubblica; contro di lui si schierarono Pompeo e il nostro Catone. Morto Pompeo nella battaglia di Farsalo (in Grecia), Catone cercò di tenere testa a Cesare rifugiandosi per l’appunto a Utica; qui però si rese conto che il suo esercito non avrebbe mai potuto fronteggiare quello dell’avversario, per cui concesse ai suoi di arrendersi e chiedere la grazia se l’avessero voluto. Molto probabilmente il nostro caro Giulio la grazia l’avrebbe concessa anche allo stesso Catone, se ne avesse fatto richiesta, essendo quest’ultimo uno dei cittadini più stimati di tutta la Roma antica, per lealtà, dignità, morigeratezza dei costumi e correttezza politica, tanto dai sostenitori che dagli avversari, ma l’Uticense mai avrebbe voluto sopravvivere alla fine della Repubblica, alla fine di un sogno: Roma. E difatti di lì a poco, sebbene con grande tatto, Cesare avrebbe instaurato la sua dittatura, che tuttavia in seguito (alle Idi di marzo del 44 a.C.) gli valse 23 coltellate (sic!). Tale era la fama di Catone, che morì stoicamente pur di rimanere fedele ai suoi ideali, che subito nacquero leggende: ad esempio, si narra che trascorse tutta la notte a leggere il “Fedone” di Platone, dopodiché si trafisse con la spada, e quando cercarono di fasciargli la ferita inveì contro le sue viscere per provocarsi una morte subitanea. «Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni» (“La causa vincente piacque agli dèi, ma quella perdente a Catone”) commenta il poeta Lucano nel suo “Bellum civile”; già, quello di Catone è un atteggiamento ‘titanico’: da solo si erge contro tutto e tutti, contro un nemico più forte, contro un destino avverso, persino contro gli dèi che favorirono il vincitore Cesare. Catone è solo, solo nel sostenere la sua causa, solo nella morte, ma libero! In questo sta la sua vittoria: la scelta della libertà a qualunque prezzo! Anche a quello della vita. Perché in fondo una vita senza libertà è degna di essere chiamata vita? Per un saggio stoico certamente no. Ma forse neanche per il ‘cristianissimo’ Alighieri che, benché Catone sia stato un suicida, proprio non ce la fa a collocarlo tra i dannati dell’Inferno, e lo pone invece a guardia dell’isola del Purgatorio. L’ammirazione per l’uomo che fu vince persino sulle ferree leggi dei regni oltremondani: unica eccezione in tutte e tre le cantiche, alla luce della virtù morale manifestata dall’Uticense, poiché il suo non fu un suicidio per disprezzo della vita ma per amore di essa. Mi piace farmi, e farvi, una domanda: era quella di Catone la causa ‘giusta’? Non saprei, ma so che lo era per lui, e questo la rendeva degna; come tutte le battaglie quotidiane in cui crediamo e per le quali, talvolta, ci sembra di combattere contro tutto e tutti, persino “contro gli dèi”. Quante volte ci siamo sentiti vicini a questo saggio stoico! Quanto si sarà sentito affine a lui Dante (!), perseguitato dal papa e da quella chiesa che dovrebbe proteggere i suoi ‘figli’ e invece li opprime.
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