IL MATTINO
AntichiRitorni
16.05.2015 - 23:48
Dal cubiculum della Casa del Centenario - Pompei
Il buon Marco Tullio spiegava che non ci può essere oscenità nella parole, che non sono altro che lo strumento con cui ‘significhiamo’ la realtà; ma non c’è oscenità neanche nella cosa fino a quando non sono io che decido di attribuirle un particolare significato piuttosto che un altro.
In una lettera all’amico Peto (che, a differenza dell’italiano, in latino non suonava come un nome ridicolo), Marco Tullio Cicerone dissertava sull’oscenità delle parole. Ora come allora sembra che le cose non siano cambiate molto; stando a Cicerone pare che i latini fossero un popolo che parlava molto per doppi sensi, al punto che l’oratore più famoso di tutti i tempi sente il bisogno di dire la sua. L’oscenità è nella cosa o nel nome? Il buon Marco Tullio spiegava che non ci può essere oscenità nella parole, che non sono altro che lo strumento con cui ‘significhiamo’ la realtà; ma non c’è oscenità neanche nella cosa fino a quando non sono io che decido di attribuirle un particolare significato piuttosto che un altro. A questo punto nell’epistola (“Familiari” IX,22 per chi volesse leggerla interamente) viene riportato un esempio calzante: ai latini la parola “bini” faceva ridere sotto i baffi (o poteva sembrare addirittura offensiva alle orecchie di una donna), il motivo risiede nel fatto che il vocabolo, che significa semplicemente “due per volta”, poteva richiamare alla mente di un interlocutore colto il verbo greco “bineîn” (che significa “fare l’amore”); un po’ come – nelle lingue moderne – il tedesco “Katze” (gatto) o il giapponese 勝つ“katsu” (vincere)** ad un italiano potrebbero far sorridere perché foneticamente affini a parole che nella nostra lingua significano altro. Spiega Cicerone: «siamo noi che pur servendoci di parole oneste vogliamo intenderle in maniera oscena»; si pensi, ad es., a “mentula”, diminutivo di “mens” (testa), con cui i latini intendevano una pars corporis maschile, così come il diminutivo di “tectum” (tetto), ossia “tectoriola” era intenso per una pars corporis femminile. Per non parlare del comunissimo verbo “battuere”, che viene mutuato dal linguaggio agricolo per passare a quello erotico. Ma il caso più eclatante è sicuramente quello di “testis” (il testimone), parola decorosissima, che se usata all’infuori del contesto giudiziario poteva dar luogo a doppi sensi sconvolgenti, soprattutto nella sua forma al diminutivo (e qui lascio intendere a voi quale poteva essere), poiché ciò che avveniva nel corso dell’amplexus era considerato quasi una sorta di ‘processo’ con ‘testimoni’ di tutto riguardo. Quello che potrebbe sembrare un manifesto letterario sul linguaggio dell’oscenità, in realtà si rivela come un’amara riflessione da parte di Cicerone su quanto fossero ridicoli gli uomini dei suoi tempi: «Se diciamo “quel tale ha strangolato suo padre” non anteponiamo “scusa la parola, con rispetto parlando”» mentre lo facciamo se parliamo in maniera che può essere ambigua; dunque – dice Marco Tullio - non ci preoccupiamo di offendere le orecchie dell’ascoltatore con fatti davvero turpi ma stiamo attenti a che nessuno si senta ‘turbato’ per l’uso di parole comunissime (che è poi l’interlocutore malizioso a fraintendere). Sono passati più di duemila anni da questa lettera, i costumi e persino la lingua sono cambiati, ma in fondo mentalità e comportamenti sono rimasti gli stessi… E voi? Siete tra quelli che capiscono sempre ‘male’?
(**Ringrazio per il suggerimento dal giapponese l’amica e collega Teresa Silvestris)
edizione digitale
Il Mattino di foggia