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I pensieri dell'Altrove

Le vere miserie? Sono quelle che ci portiamo dentro

Le vere miserie? Sono quelle che ci portiamo dentro

La vecchiaia, la solitudine, la malattia. Protocollo perfetto per passare l'ultimo, o il penultimo poco importa, tratto della vita in una dimensione di crudelissima follia, di sporcizia morale ed oggettiva, di angoscia piena di un dolore cupo, profondo, ma sordo, tanto sordo, perché i muri non parlano, i pavimenti luridi non urlano, i capelli strappati non arrivano 'fuori' con nessun vento che possa salvare, le docce fredde non fanno rumore e le mazzate sono omertose. Ancora, è accaduto ancora e non ci riesco proprio, a vedere per più di dieci secondi, quelle immagini di docili esseri umani picchiati, seviziati, orrendamente mutilati della loro onesta e indifesa persona degradata. Una volta ho letto, con disgusto, di dinamiche comportamentali perverse e sadiche che si concretizzano soprattutto in presenza di esseri inermi o incapaci. Come se la non difesa o la passività per cause funzionali o psicologiche aumentasse di eccitazione, di rabbia, di sadismo o non so che altro l'atteggiamento criminale di taluni stronzi. Ho avuto una madre malata di Alzheimer, mia madre è stata per un po' in un ospedale, e in quella stanza le sue innocue ed innocenti esternazioni erano oggetto di carità pelosa e di beffarde considerazioni silenziose. Io ero disperata perché mia madre, la mia mamma, la vedevo oggetto di continui insulti al suo decoro ed al suo orgoglioso pudore. Eppure, quello era un luogo 'protetto', un luogo dedicato al dolore ed alle sofferenze, un luogo dove il pigiama non significa riposo ma sangue, urina, malattia. Riportarla a casa era il mio unico pensiero, sottrarla all'indecenza dell'esposizione inconsapevole di sé mi sembrava l'unica cosa possibile. Ora, vedere la disabilità psicologica di altri esseri umani mi scuote in maniera feroce, e vedere questi esseri umani abusati e terrorizzati lo trovo insopportabile. Le vere miserie degli uomini non sono intorno agli uomini, ma ci vivono dentro. Le parole che ora si spenderanno nei telegiornali, sui giornali, nei contenitori pomeridiani, avranno giusto il tempo di una nuova ondata di disgusto e indignazione, qualche parente (forse) si ripiglierà il familiare, gli aguzzini diranno che sono esauriti, che ci sono smagliature nella gestione di questi presidi e che sono, sempre, troppo pochi per quel tipo di struttura e per quel tipo di ammalati. Resta il pugno nello stomaco per quei corpi feriti, quegli occhi spaventati, quelle braccia tese in un tentativo struggente di difesa, la pena per chi, pur non avendo colpe, espia col dolore il dolore stesso della vita. E restano gli uomini, anzi no, restano le domande, e  una su tutte: ma cosa, veramente, resta della pietas degli uomini?
P.s. Post scritto prima della stomachevole vicenda del ragazzino violentato perché 'grasso'. Ci sono crudeltà umane superiori a qualsiasi  brutto sogno che poi col tempo puoi provare a raccontare e puoi, magari, dimenticare; ci sono atti indifendibili, spietati, che ti fanno perdere di vista  l'illusione che in fondo siamo deboli e giustificabili esseri Umani. Che abbiamo un'anima, certe volte smarrita in un luogo oscuro, melmoso e profondo. Come in una grotta  segreta e scivolosa, a spirale, abitata da scarafaggi che non sanno che fuori c'è la compassione. E, anche, la messa in pratica del senso della vergogna.

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Mariantonietta Ippolito

Mariantonietta Ippolito

Il pensiero è la forma più inviolabile e libera che un individuo possa avere. Il pensiero è espressione di verità, di crudezza, di amore. Quando il pensiero diventa parola il rischio della contaminazione della sua autenticità è alto. La scrittura, invece, lo assottiglia, ma non lo violenta. Io amo la scrittura, quella asciutta, un po’ spigolosa, quella che va per sottrazioni e non per addizioni. Quella che mi rappresenta e mi assomiglia, quella che proverò a proporre qui. Dal mondo di “Kabul” al vasto mondo dei pensieri dell’”altrove”.

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