IL MATTINO
I pensieri dell'Altrove
28.09.2014 - 10:23
Lo skyline di Las Vegas
Metti che decidi di fare un viaggio che sia più lungo di due settimane e che ti porti lontano da casa più di novemila chilometri. Metti che devi prendere cinque aerei, poi devi prendere una macchina a nolo, che devi percorrere mille e cinquecento chilometri fra San Francisco, Yosemite, Los Angeles, deserto del Nevada; che non sai dire bene nella lingua locale che la macchina che ti hanno dato ha un guasto, ma che non te la vogliono cambiare, metti che molto spesso gli abitanti del luogo fanno finta di non capire, o peggio ti ridono dietro, che un compagno di viaggio perde (fortunatamente solo per mezz'ora) il passaporto e tutti i soldi a ridosso dell'undici settembre e che già ti vedi al Consolato chiedere di credere che siamo tutte brave persone e che abbiamo famiglie che ci aspettano, metti che perdi un aereo, che il taxista ti dice sghignazzando un 'fuck you' senza nessuna timidezza, e che alla fine delle varie tappe approdi in una città- delirio, una città in cui tutto quello che in una notte di sonno agitato potresti sognare è invece una sfida reale e consapevole alla ragionevolezza e al sistema nervoso e avresti già elementi sufficienti per ricordarti 'il' viaggio. Ma la città-delirio, cioè Las Vegas, per poterla in qualche misura digerire ha bisogno di essere raccontata: arrivi dopo che hai percorso per centinaia di chilometri il niente assoluto, il deserto è affascinante proprio perché le cose non ci sono, gli spazi sono senza confini, la strada è un filo d'argento largo ed infinito, non vedi una curva, un dosso, sembra un nastro srotolato e tenuto fermo ma non vedi da chi. Poi, all'improvviso, come un sipario che si spalanca cominci a vedere punte luccicanti, più avanti grattacieli e quando ti avvicini comprendi che i grattacieli hanno le coperture completamente dorate, o argentate, così luminose che al sole del tramonto risultano enormi blocchi di luce accecante. Entri in città e il contesto è tutta una continua ed estenuante sollecitazione sonora, visiva, percettiva. Gli alberghi sono città, raccolgono dagli ottomila ai dodicimila ospiti, in tutti sono impiantati i famosi casinò, enormi ed affollati a tutte le ore del giorno e della notte. Molte, moltissime, le coppie di sposi sembrerebbe appena sposati: lei con l'abito bianco ed il bouquet in mano, lui con l'abito grigio da cerimonia e un bicchiere di non so che cosa sempre vicino. Sembrano finti. Così come finta è tutta la ricostruzione di Venezia nel nostro hotel che, manco a dirlo, si chiama 'Venetian'. Piazza san Marco, il campanile, le gondole con i turisti felici e (forse) fintamente stra-innamorati, i canali. Per la prima volta nella mia vita ho visto centinaia di metri quadrati di cielo finto, con tanto di deliziose nuvolette che sembravano muoversi con te, i gondolieri (finti) che cantavano 'o sol mio' o 'funiculì funiculà', una pavimentazione di pietre scure fintamente umida, ma è stato quando mi sono trovata nel mezzo di un concerto in maschera in un italiano con l'accento del ridicolo, nella fintissima piazza in cui stagnava un odore costante di fondo che stava a metà fra una spruzzata di deodorante americano e una di plastica, che ho provato un tremendo senso di vertigine e di smarrimento. Fuori da questi giganteschi, 'ludici' luoghi-sequestri, è anche peggio: gente (tra)vestita da angeli con piume bianche appiccicate sul petto e i genitali trattenuti da una retina nera, 'suorine' con tanto di velo ma le tette all'aria, wonder woman, gran pezzi di ragazzi con bicipiti scolpiti ma sotto con gonnelline da bambine, robot, 'pappagalli', 'poliziotte' in calze a rete e poi fumo, tanto fumo, come nebbie novembrine che ho respirato pur non volendo 'fumare'. A Las Vegas è tutto tanto big, large, much, insomma l'eccessivo si fa materia, anche umana, nel disordine e nel caos che lì diventano conduzione di danaro, convergenze di nevrosi, esaltazioni di comportamenti accelerati e fortemente di cattivo gusto. È una città esasperata dalla volontà di creare lo sballo, lo stordimento, la 'cultura' del gioco, la destrutturazione delle consuetudini di una vita 'normale' e anche un po' sanamente noiosa. Mi sono sentita piccola, inghiottita e anche un po' claustrofobica. A me appariva tutto, o quasi, indigesto. A me che vengo da posti dove le cose sono essenziali, le luci colorate (piccolissime) le mettiamo solo sull'albero di natale, le strade sono strette, le case sono case, dove gli unici effetti speciali sono i fuochi d'artificio alla festa di paese di San Rocco. Dove il grande è nascosto dentro, non fa chiasso, non fa bagliori, spesso fai fatica a conviverci e a volte implode dolorosamente, ma è così denso ed imponente che riesce ad essere vero e silenziosamente immenso.
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