IL MATTINO
16.08.2014 - 20:10
Un caffè al mattino (90 centesimi), un panino o tramezzino a pranzo (2 euro), un gelato la sera (2 euro). Diciamo che, essenzialmente, mettiamo in conto 5 euro al giorno per mangiare che, insieme al vestirci, consideriamo beni di prima necessità per poter vivere. E per pensare, scegliere, decidere, agire, quanto investiamo? Quanto siamo disposti a spendere per nutrire la nostra intelligenza di informazioni (notizie) e, quindi, conoscenze (formazione) indispensabili a raffinare la nostra crescita? Senza necessariamente disporre di dati statistici, basterebbe mettere a confronto il numero (e il volume d'affari), da un lato, di bar, ristoranti, pizzerie con quello, dall'altro, di edicole, librerie, agenzie di viaggio - viaggiare è crescere mentalmente -, laboratori teatrali e artistici, per realizzare da che parte pende la bilancia dei valori della nostra comunità. Si, perché in definitiva è una questione di valori: cioè, di cosa riteniamo essere più importante per la nostra vita e quella dei nostri figli. Se doveste scegliere, tra una pizza e un libro o uno spettacolo teatrale, cosa scegliereste? Cosa scegliereste tra l'ennesimo vestito griffato e un viaggio alla scoperta di luoghi ed emozioni mai conosciute, o un corso di formazione?
Ai cafoni che gli rimproverano di aver speso i pochi soldi che s'era guadagnato per comprare un vocabolario, invece di un piatto di carne e maccheroni, Giuseppe Di Vittorio risponde rudemente, persino: «Alla fame siamo abituati. È all'ignoranza che non siamo abituati: dovete capire che la fame dipende dall'ignoranza; quando avremo superato l'ignoranza, avremo risolto anche i problemi della fame». La scolarizzazione di massa realizzò l'uguaglianza sociale distribuendo a tutti armi pari per affrontare l'eterna sfida all'ignoranza: partendo dal "saper leggere, scrivere e far di conto", si distingue e si eleva, conquistando condizioni migliori di vita per sé e la propria famiglia (procurando, di conseguenza, stimoli e valore aggiunto alla comunità in cui vive), solo chi sa nutrire la propria curiosità di conoscenze, ruminarle e secernere opportunità e strategie di crescita individuali e collettive.
Non è complicato, è una questione di abitudine. Abbiamo realizzato una conquista sociale, con l'abitudine di prendere il caffé al bar; non quella culturale, con l'abitudine di comprare il giornale. Misuriamo il benessere economico con la possibilità di mangiare la pizza almeno una volta a settimana, mentre trascuriamo quello mentale con l'acquistare e leggere almeno un libro al mese. Siamo abituati a pagare la ricarica del telefonino o la bolletta del collegamento ad internet, ma non rientra nelle nostre abitudini ripagare il lavoro di chi fornisce notizie e contenuti in rete, utili nel realizzare quella democrazia che, come diceva il filosofo e storico francese Alexis de Tocqueville, «può unicamente appartenere ad un popolo informato». Un esempio? Nelle comunità culturalmente evolute, i giornali sono avvertiti, a far capo dalla classe imprenditoriale (vedasi Triveneto), come patrimonio collettivo d'identità sociale; da noi sono percepiti come il surrogato di teoresi politiche o dell'ignavo sottobosco paraistituzionale (imprenditori, professionisti, etc. etc.) che vi si alimenta, ben guardingo dal realizzare quella democrazia partecipativa dell'informazione che auspicava de Tocqueville. Eppure, nella scelta tra una pizza e un libro, tra un gelato e un giornale, tra un altro vestito e un viaggio, rimane ancora così inconsueto realizzare che, come diceva Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, «L'investimento nella conoscenza paga sempre il più alto degli interessi». A cominciare dalle piccole scelte/abitudini di ogni giorno.
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