Quello che in questi giorni di inverno ci racconta la natura ha a che fare con l'essenzialità. Gli alberi asciutti nella loro povertà di fogliame, il panorama nascosto delle nebbie, i cieli grigi senza voli, l'accenno verde del grano sulla terra come una timida ricrescita, l'assenza visibile del traffico delle formiche in giardino. Tutto in pausa, in una specificità di movimento lento delle cose, frenate dal freddo, dalle ore di luce dimezzate, dalla pigrizia che protegge i cicli naturali prima delle adolescenze primaverili. A me piacciono le stagioni che hanno valori, come dire, 'sottrattivi', sono le stagioni in cui la socialità diventa un pretesto di incontro che ti viene a cercare, non la trovi facilmente in piazza, diventa casalinga e poco chiassosa, limitata ma intensa ed intima. Parli di cose più vicine all'invisibile che alla grossolana materialità, parli più facilmente del freddo che hai dentro perché è parente stretto di quello che ti aspetta fuori, nonostante lo sciarpone al collo. C'è stata una spolverata di neve, qualche giorno fa, quella prima neve che scommette ancora con il nostro stupore e un filamento di meraviglia infantile. Ancora a guardare la caduta scompigliata e morbida dei fiocchi bianchi che si adagiano sulle cose ritagliando confini, altezze, territori. Rendendo il tutto ordinato e definito, composto, pronto per accogliere uno sguardo che fotografa precisione e luce. Pronto per continuare a comporre dentro di noi significati simbolici come la copertura, l'attesa dello scioglimento, il ritorno ai ricordi di infanzia, il gioco, il calore della casa. Simbolici, perché così vicini al nostro vivere ed al nostro essere. Anche a noi capita di voler mettere una coperta spessa sui nostri dolori per non vederli, per tenerli al buio, nascosti, pensando di farli tacere, e immaginando che poi, all'esposizione della luce, possano essi stessi sciogliersi fra loro, liberarsi dalle scorie tossiche, disinfettarsi al sole, senza rumore e senza traumi ulteriori. Poi i ricordi, quelli di noi bambini ci rendono vulnerabili, ci licenziano irrimediabilmente dallo stato di innocenza, e la neve fra le mani rosse e gelate ci restituisce quel senso del futuro sconosciuto che avevamo e che in parte è già diventato 'ieri'. Sono nata in questi giorni, tanti giorni fa. Sono nata in un giorno di neve intensa, in un anno di neve indimenticabile, e per farmi nascere mio nonno e mio padre crearono corridoi fra cumuli di neve per far arrivare a casa l'ostetrica, la carissima Ida. La neve quindi è un mio corredo neonatale, difatti preferisco il freddo al caldo, anche se ho sempre freddo. Quando arriva una nevicata importante a me pare che si verifichi una sorta di vacanza, non solo per le scuole chiuse, ma per quel senso di autorevole sospensione che suggerisce di rallentare le nostre frette, si fa una spesa alimentare doppia, come se la dispensa piena vincesse una antica paura di morire di fame, si esce in gruppi e ci si ritrova nei familiari luoghi di raccolta, a consumare riti comunitari per un evento da condividere. Ora c'è aria di scirocco, piove e c'é la nebbia, ma l'inverno è ancora nel suo respiro, aspettiamo nuova neve per coprire la terra, il grano giovane, i rami nudi, i nostri tetti e, magari, anche qualche dolore.
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Mariantonietta Ippolito
Il pensiero è la forma più inviolabile e libera che un individuo possa avere. Il pensiero è espressione di verità, di crudezza, di amore. Quando il pensiero diventa parola il rischio della contaminazione della sua autenticità è alto. La scrittura, invece, lo assottiglia, ma non lo violenta. Io amo la scrittura, quella asciutta, un po’ spigolosa, quella che va per sottrazioni e non per addizioni. Quella che mi rappresenta e mi assomiglia, quella che proverò a proporre qui. Dal mondo di “Kabul” al vasto mondo dei pensieri dell’”altrove”.