Su Rai 3 giorni fa è stato trasmesso un bel documentario sulla Lucania. L'elemento narrante (e narratore) era l'amico Franco Arminio, paesologo per vocazione e per mestiere, uno che del sud e dei suoi paesi si fa portavoce culturale appassionato. Uno che gira, ama, fotografa, scrive, intervista indigeni, incontra paesaggi, spia il territorio, se lo porta a casa e se lo mette addosso. I paesi del nostro sud si fanno amare, o ti fanno molto arrabbiare. Io sono più vicina alla seconda posizione. Va da sé che al paese, inteso come luogo geografico, non si possono attribuire oggettive responsabilità, queste vanno invece ripartite soggettivamente ed equamente fra tutti coloro che ci vivono, fra quelli che "ho tante idee ma non ne so attuare nemmeno una", quelli che al fare preferiscono le sedute comode, un po' dormienti, senza troppe ansie né passioni e quelli del "tiriamo a campare". Alcuni dei nostri paesi a me sembrano come quei portoni antichi pieni di significati storici e familiari, nobili e vissuti, quelli che si trovano ancora sulle facciate di qualche palazzo di antica memoria. Il portone, una volta aperto, sembra totalmente estraniato da quello che si vede all'interno: la 'disabitazione', la mancanza di arredo e di cura, di mantenimento di interesse, di incapacità di salvaguardare la 'vetustà ', intesa come patrimonio di natura culturale e storica. Cioè manca una vera integrazione fra quella che può essere l'idea iniziale, ricca di aspettative per la fascinosa facciata e quello che di concreto 'non' trovi all'interno. A parte quella ormai nota e noiosa iconografia che vuole i paesi tutti pieni di bontà, di semplicità, di leggerezza, non solo dell'aria, io penso invece che a questi nostri luoghi vadano date flebo intense di vitamine e di idee, vadano date strade degne di questo significato, forza di braccia e di teste, vadano restituiti i giovani con programmi economici rivoluzionari, migliorati i servizi, se non addirittura creati ex novo. Penso ad una politica locale audace, giovane, motivata; più si é giovani più si crede nei sogni e nelle loro possibili attuazioni e penso ad una convergenza di idee modernamente diverse ma proprio per questo vicine e utili per tutti, penso a governi locali che facciano sentire importante e protagonista ogni singolo cittadino, penso ad investimenti coraggiosi che diano ragioni al restare, altrimenti la fuga e la scelta verso le città e verso un altrove qualunque ne decreteranno lo svuotamento. Chi nasce paesano lo resterà per sempre, l'anima agricola e composta te la porti insieme alle gambe, ti si attaccano addosso gli angoli di un quartiere, un pezzo di terra incolto, il profumo del sugo nella stradina, la voce della vicina che chiama i gatti, il vicoletto che soffre per le porte chiuse, la luce del giorno e della sera senza lo skyline dei palazzoni alti, i cani randagi che litigano di notte sotto le tue finestre, il tuo dialetto. Ma questo patrimonio va fertilizzato, chi resta nei paesi non deve solo amarli o subirli, deve poterli vivere. Senza frustrazione, senza mancanze importanti, senza la necessità obbligatoria di doversi sempre accontentare. Solo così i nostri figli, nipoti, continueranno a guardare senza rabbia la bella torre del bel castello medievale, il borgo antico, ma soprattutto la loro contemporaneità.
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Mariantonietta Ippolito
Il pensiero è la forma più inviolabile e libera che un individuo possa avere. Il pensiero è espressione di verità, di crudezza, di amore. Quando il pensiero diventa parola il rischio della contaminazione della sua autenticità è alto. La scrittura, invece, lo assottiglia, ma non lo violenta. Io amo la scrittura, quella asciutta, un po’ spigolosa, quella che va per sottrazioni e non per addizioni. Quella che mi rappresenta e mi assomiglia, quella che proverò a proporre qui. Dal mondo di “Kabul” al vasto mondo dei pensieri dell’”altrove”.