Cerca

Storie e Geografie

L'ultimo giorno di scuola

L'ultimo giorno di scuola

Tra i professori che si sono alternati davanti al mio banco, il docente di storia dell’arte era quello che più mi piaceva. A dire il vero era il preferito di tutta la classe. La ragione rispecchiava in pieno la serena inconsapevolezza della mia gioventù. Il Professor Canuto ci faceva fare di tutto. Non ci rimproverava nulla, non tentava nemmeno di stabilire un minimo di disciplina. Questo perché  non si accorgeva di niente. Il Professor Canuto era cieco come una talpa. Entrava in classe, si toglieva gli occhiali che praticamente utilizzava per spostarsi da una classe all’altra, e continuava a spiegare. Sin dal primo giorno di scuola si comportò così, senza mai cambiare abitudini. Dopo tre giorni comprendemmo i suoi limiti visivi; dopo una settimana cominciammo a testarne i confini, spingendoci sempre più in là, ogni giorno con qualche cosa di nuovo, divertiti e stupiti dal meraviglioso regalo che il destino ci aveva voluto riservare. Le scritte sulla lavagna con il gesso, le più oscene e crudeli, presero posto sulla parete alle sue spalle -il Professor Canuto non si alzava mai- finendo poi addirittura sulla parete di fronte, sempre più grandi e marcate. Gli alunni entravano e uscivano senza che lui li contasse e spesso rimaneva a fare lezione in una classe completamente vuota. Le interrogazioni poi erano uno spasso. Una mezza dozzina di noi veniva interrogata tre o quattro volte, a beneficio di chi non si alzava nemmeno dal posto. Ci pensava lo scrivano di turno, eletto dal professore alla compilazione del registro, a sistemare i voti. La cosa non comportava un enorme sacrificio per i volontari i quali, lungi dallo studiare, leggevano sul libro praticamente davanti alla sua faccia, mentre lui non si accorgeva di nulla. Nessuno lo ascoltava, a nessuno era mai nemmeno venuta la curiosità di sapere di cosa parlasse nonostante avesse, fuori dalla scuola, la reputazione di dotto e rispettato conferenziere.

L’ultimo giorno di scuola però lo ascoltammo tutti. Appena entrato non si tolse subito gli occhiali. La circostanza ci sorprese, anche perché non vedevamo l’ora di dispiegare l’enorme striscione – praticamente tutta la parete – con sopra la scritta “Addio, testa di cazzo”. Il nostro simpatico saluto per il Professor Canuto. Sempre con gli occhiali sul naso, ci rivolse queste parole

-Miei cari ragazzi, da domani non ci vedremo più. Tra qualche giorno cominceranno gli esami di stato e quando li avrete superati, perché tutti saranno promossi, sarete pronti ad affrontare la vita così come si presenterà.

-So bene che molti di voi si preoccupano del voto. In realtà, cari ragazzi, il voto non è importante. Quello che conta, e lo scoprirete facendone esperienza, è solo ciò che siete riusciti ad imparare. Il sapere, la cultura, amici miei, è cibo. Non potete sostituirlo con pezzi di carta. Morireste solo di fame.-

Si tolse gli occhiali, ma nessuno si mosse.

-Io oggi vado via subito. Vi lascio il resto dell’ora da soli, per pensarci su.-

Silenzio

-Voglio farvi un regalo. Vi lascio i miei occhiali.-

Se li rigirò tra le mani, fissandoli con occhi spenti.

- Vi aiuteranno, forse, a capire meglio.-

Detto questo li lasciò sulla cattedra e se ne andò. 

Tutti noi pensavamo che avrebbe centrato lo stipite, rompendosi il naso. E invece infilò la porta con sicurezza e sparì dalla nostra vista. Io fui il primo a raggiungere la cattedra e d’istinto presi gli occhiali. Vi guardai attraverso e, ancora incredulo, li inforcai. Ci vedevo benissimo. Erano due pezzi di vetro senza nemmeno un mezzo grado. Il Professor Canuto aveva la vista di un’aquila. Fu allora, in quel preciso momento che, attraverso quelle false lenti, vidi me stesso. Mi vidi vestito con il maglione infilato al posto delle gambe a ballare sul banco come un idiota; mi vidi a squadernare riviste sconce sulla cattedra mentre il prof parlava e l’intera classe sghignazzava alle mie spalle; mi vidi in bagno a fumare, e Canuto spiegava. E raccontava, sognante, di opere meravigliose. Improvvisamente mi avvolse un’angoscia indescrivibile. Non per le figure fatte nel corso di tre anni. Non per il fatto di avere scoperto, dopo tutto questo tempo, di non essere altro che una scimmia nella gabbia dello zoo, che pensa di fare quel che le pare e invece è solo messa lì per divertire chi la guarda. L’angoscia, il vuoto, mi avvolse per un solo motivo. Non ricordavo una sola parola delle spiegazioni del Professor Nardone. Di punto in bianco mi sembravano importantissime. Vero o no, ero convinto di essermi perso qualcosa di bello, di fondamentale. Qualcosa che avevo buttato via, e che non avrei toccato mai più. Gli occhiali passarono di naso in naso. Ad una ad una le risate si spensero. Ognuno di noi capiva, come se su quelle lenti leggesse lo stesso messaggio. Solo il Franti, il più idiota di tutti, ancora rideva e tentava di raddrizzare quello striscione che, adesso, rappresentava il saluto di un’occasione persa, rivolto a ciascuno di noi.

 

Commenta scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Il Castello Edizioni e Il Mattino di Foggia

Caratteri rimanenti: 400

Marco Scillitani

Marco Scillitani

È nato nel 1967, il 23 novembre, giorno che gli ha consentito di festeggiare un compleanno indimenticabile con il terremoto del 1980. Fa l'avvocato non per vivere, ma perché lo trova interessante e, non avendo mai saputo usare le mani gli è parso il metodo più efficace per raddrizzare le cose storte. Insegna Magia e Formule all'Università, ma di nascosto. Chi lo ascolta crede che parli di Procedura penale. Solo il titolare della cattedra se ne è accorto ma fa finta di niente. Da piccolo ha cominciato a osservare quello che gli accadeva intorno, collezionando storie e territori immaginari. Quando qualcuno glielo chiede, le restituisce. Ma non si assume responsabilità.

edizione digitale

Sfoglia il giornale

Acquista l'edizione