IL MATTINO
La "profezia" dell'incidente ferroviario in Puglia
14.07.2016 - 10:17
Che freddo quella notte di ottobre, la nebbia colmava fitta la valle del Basento, contadini e uomini con la valigia si assiepavano davanti alla stazione per prendere il Treno n°265 per Taranto. Morirono in venti, i feriti furono oltre 40, per lo più operai e contadini...
Quante volte sarò passato dal km 47 della Basentana? Tante, ma proprio tante, il mio lavoro mi porta spesso a passare di lì, quei due fossi che scendono dal pendio li guardo spesso, specie di inverno, quando con l'acqua vengono giù verso la strada argille e piccole colate di terra. Eppure no, non lo sapevo, ci sono storie che la Storia dimentica, frammenti di tragedie dimenticate, lasciate ad impolverarsi in qualche archivio di Stato, dove ammuffiscono colpe di cui uno Stato si vergogna.
Quella che vi racconto oggi è la storia della Madonna della frana.
Che freddo quella notte di ottobre, la nebbia colmava fitta la valle del Basento, contadini e uomini con la valigia si assiepavano davanti alla stazione per prendere il Treno n°265 per Taranto. Il treno. Quel regalo pianificato dal Re Borbone e poi attuato dal nuovo Regno, simbolo di modernità e di progresso, così tanto osteggiato da nobili e latifondisti, così ostinatamente voluto dalla classe borghese che vedeva nello sviluppo della Nazione il suo futuro. Salirono in tanti, facce da lavoro, uomini in giacca, viaggiava anche una intera compagnia di bel canto diretta a Corfù per la stagione lirica, un giovane e una ragazza canticchiavano brani dal Don Carlos.
Alle 5,00 del mattino i viaggiatori dormono, in ottobre è ancora buio e quella giornata fredda e scura con la pioggia che batteva forte sui vetri delle carrozze, ancor più induceva a star accucciati sotto i paltò e i cappotti per cercare di strappare ancora qualche ora di sonno al viaggio lungo e scomodo.
Il macchinista, Lui non dormiva, un occhio alla caldaia e uno ai binari, tra vampate di calore e vapore, polvere di carbone e qualche raro attimo di pausa per una cicca. Dio se pioveva, era dal giorno prima che l'acqua cadeva fitta su quelle colline saponose, grigie di argille tenere e ocra di sabbie sciolte, l'ultima testimonianza di un mare spento.
Il Sorvegliante si muoveva a fatica, 10 km di strada ferrata da controllare possono sembrare pochi quando c'è il sole e il tempo è buono. D'Estate tra il grano alto in attesa della falce, il frinire dei grilli era un caos armonico, alberi sparsi erano il rifugio dal sole e dall'afa durante il tragitto d'ispezione. Quel 19 ottobre no, c'era un gran freddo. La pioggia maligna era uno scroscio gelido che ti bagnava l'anima prima che il corpo.
L'aveva fatta l'ispezione il sorvegliante, era quasi al Casello 215 quando iniziò a grandinare. Trovò rifugio nel Casello e rimase lì in attesa che smettesse quello sconquasso di acqua e ghiaccio dal cielo, rimase a lungo, poi venne la sera. Il freddo, l'acqua, la fame lo fecero tornare indietro al calore della sua casa e a un pasto caldo. Non si inoltrò verso la curva dopo il Casello, uscì bagnato e sotto l'acqua si avviò per ritornare.
Sulla linea nessun problema da segnalare.
Una goccia d'acqua può essere potente, scava la roccia dura nei secoli, tortura un uomo, si infiltra, divaga, rompe legami, sposta particelle e, quel 19 ottobre, legioni di piccole gocce fecero il loro compito su una collina d'argilla troppo esposta per resistere.
Cominciò tutto con un lento deformarsi del pendio, un ventre molle gravido di acqua cominciò a gonfiarsi e scivolare mentre a monte si apriva una crepa, piccola all'inizio, che come una bocca ingorda si rimpinzò di acqua. Particella per particella l'argilla si sciolse, si smosse, si incamminò. Una colata è un serpente in movimento, che cola, striscia, scivola, travolge e infine sommerge ciò che incontra sul cammino. Due binari su una massicciata fanno presto ad essere sommersi e dietro la curva, oltre il Casello 215, il terreno fece un sol boccone della ferrovia, la travolse, la sommerse, la soverchiò poi si allargò nella valle del Basento e restò in attesa come un coccodrillo paziente aspetta la sua preda.
Alle 5,35 arrivò il treno 265, con il suo carico di operai, contadini, borghesi, musicisti arrivò ignaro che dietro la curva dopo il Casello, lo attendeva il coccodrillo affamato.
Buio, freddo, l'acqua che colava giù dalle sopracciglia, il macchinista diede uno sguardo al manometro e fece voce di spalar carbone nella caldaia, poi uno sguardo alla valle ancora buia, il faro della locomotiva penetrava a fatica nel muro d'acqua che scrosciava dal cielo. Superarono il Casello e poco dopo imboccarono la curva. Forse fu un lampo oppure un riflesso a catturare l'attenzione del macchinista, guardò in avanti e laddove dovevano brillare le due rette parallele dei binari si intravedeva una massa scura, informe, che giaceva sulla ferrovia. Azionò i freni, azionò l'allarme, azionò il controvapore.
Nelle carrozze lo sconquasso fu totale, chi cadde, chi batté il capo, un frastuono di valige e uomini che ruzzolavano in terra sovrastato dal lamento metallico dei freni che cercavano, inutilmente, di arrestare la corsa. Finì come non doveva finire: la carrozza si schiantò sulla frana che era caduta sulla strada ferrata: urla, stridii e lamenti di metalli piegati, schiocchi di legna che si spezzava, ossa in frantumi, fumo nero di legna e carbone, poi, nel silenzio del fine corsa, i lamenti dei feriti e dei sopravvissuti.
Il figlio dell'avvocato finì sotto le ruote schiacciato orribilmente, la cantante piangeva a singhiozzi con il viso sporco di fango e una larga ferita sul braccio, l'ingegnere con i baffi lo portarono via a braccia, mezzo morto.
Morirono in venti, tra questi il direttore d’orchestra di Corfù ed alcuni cantanti della compagnia, tra di essi un giovane avvocato non ancora trentenne, che voleva fare il cantante. Sporche di fango e di sangue vennero ritrovate nella carrozza squassata dall'urto le partiture della prima versione dell’opera Don Carlos.
I feriti furono oltre 40, per lo più operai e contadini. Il viaggio del treno 265 terminò lì e iniziò a muoversi un altro convoglio, non meno lento e doloroso, quello della giustizia italiana che, come il treno 265 non arrivò mai a destinazione.
Nello stesso periodo in Francia ci fu un episodio simile, fu risolto da un'inchiesta che portò alla condanna dei responsabili in pochi mesi, ma la nostra storia accadde in Italia e non in un Italia qualsiasi ma nell'Italia dei lazzaroni, dei figli dei briganti, nell'Italia del Sud conquistata a colpi di fucile e in una delle sue lande più desolate: la Basilicata.
Altrove, nella rete ferroviaria italiana dell'epoca, anche nelle tratte secondarie, i treni erano dotati di freni automatici, ma qui no. Quella cautela indispensabile nelle tratte minori della Lombardia e del Piemonte non era ritenuta necessaria su un tratto principale dell'Italia conquistata. Di quell'Italia da dotare del corredo infrastrutturale necessario per essere meglio sfruttata al servizio dei nuovi padroni, ma non sufficientemente importante da dover essere dotata di pari dispositivi di sicurezza.
Come andò a finire? Nel peggiore dei modi.
Sotto le pressioni del Governo e della Società ferroviaria che non poteva essere condannata a risarcire milioni alle vittime, il processo, con la scusa che i magistrati non potevano essere sereni -legittima suspicione-, fu scippato al Tribunale di Matera e poi, dopo la condanna emessa dal Tribunale di Potenza che dichiarò responsabile civile il comm. Mattia Massa, direttore generale della Società Ferroviaria (Rete Mediterranea), in appello, con la medesima scusa, nuovamente scippato e inviato a Bologna.
Cosa accadde si può leggere nel volume difese penali di Enrico Ferri, che fu avvocato di parte civile. Enrico Ferri fu esponente di rilievo della scuola positiva di criminologia, professore di diritto penale, avvocato e, naturalmente, militante socialista, direttore dell’Avanti e deputato socialista. “...il P.M. e il relatore non fecero che uno sfogo irruento contro il tribunale di Potenza che aveva osato condannare la Società ferroviaria … tanto che io, sdegnosamente protestando, lasciai la toga e non volli partecipare alla discussione. In Cassazione continuò lo stesso malaugurato influsso e la impunità del disastro di Grassano (che mi fu confessato a quattr’occhi essere imposta dalla ragione di stato di non provocare il fallimento della Rete Mediterranea, con l’obbligo di pagare qualche milione di indennizzo)». Due anni dopo la sentenza di Potenza, cinque anni dopo il disastro, la Società ferroviaria andò esente da ogni responsabilità!”.
Voi vi domanderete ora: cosa c'entra la Madonna della frana? Ebbene dovete sapere che successivamente all'evento franoso e per molto tempo, ogni giorno folle di manovali erano lì, con badili e carriole, a trasportar via la terra che continuava a franare. Un'immane fatica di Ercole combattendo contro il monte che continuava a franare. E siccome si da il caso che, in terre come quelle, in tempi come quelli, stretti tra il bisogno e la mancanza di lavoro, gli uomini riescano ad essere riconoscenti anche per le disgrazie, su quell'altarino costruito in onore della Madonna, operai e manovali pregavano che il lavoro non avesse termine.
Cosa resta di quell'immane disgrazia di 128 anni fa? Il resto di niente. Non c'è memoria, non c'è una lapide -almeno che io sappia- e ancora oggi dopo 128 anni le ferrovie del meridione d'Italia seguono logiche di minima assistenza e utilità, obsolete, lente, utili solo a servire gli interessi della parte sviluppata del Paese a discapito di quella più negletta.
Resta poco altro da dire.
Penso a quel giovane avvocato che sperava di cantare il Don Carlo e avere successo. Guardo dalla strada quelle scarpate di argilla grigia e da lontano mi giunge un'eco che mi sembra sussurrare: Vago sogno m'arrise... ei sparve; e nell'affanno un rogo appar a me, che spinge vampe al ciel. Di sangue tinto un rio, resi i campi un avel, Un popolo che muor, e a me a man pretende Siccome a Redentor, nei di della sventura. A lui n'andrò beato, se spento o vincitor. Plauso o pianto m'avrò dal taro memore tu cor.
I tempi cambiano, non ci sono più i viaggi avventurosi, nella mia terra si è passati dalla speranza di arrivare alla speranza di trovare un treno per partire.
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