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Lutto nel cinema internazionale

Alain Delon: il parà che divenne Divo

Alain Delon: il parà che divenne Divo

Alain Delon è l'ultimo divo della nostra Epoca, l'ultimo di una generazione di attori che avevano la bellezza come filtro, e che per questo parlavano a chiunque, ben oltre la celluloide che li imprimeva.
Con lui se ne va è per sempre una certa idea del cinema e della mascolinità, un' idea fatta di scatti e di continui rilanci, dove lo spazio per la vita era ricavato all'interno della stessa rappresentazione cinematografica, così da essere la rappresentazione cinematografica più reale del quotidiano.
Non è stato Alain Delon un bello e dannato, benché sia opinione comune crederlo, ma se dannazione c'è stata è avvenuta nel passaggio tra la maturità e la vecchiaia, quando il tempo, più che certezze restituisce solitudine, soprattutto a chi ha vissuto totalmente espostoverso l'esterno, perché il tempo a lungo lo ha lusingato con la propria immagine levigata, come se quella fosse il per sempre suo o di chiunque altro essere umano.
E su quell'immagine delicata e fredda allo stesso tempo, il parà Delon, che il cinema salvò da una vita fatta di espedienti, è sempre andato avanti, al punto che la sua immagine gli ha permesso di oscurare il resto, quel resto che la vita non risparmia a nessuno, nemmeno ad Alain Delon.
«Non volevo fare questo mestiere. Venivo dall’esercito. A 17 anni ero sotto le armi. La mia infanzia è stata tragica. Poi è successa una cosa miracolosa: il cinema è venuto a cercarmi. Forse sono stato scelto per il mio aspetto fisico, ma non corrispondeva a chi ero davvero: era l’opposto del mio travaglio interiore».
Al netto di una carriera artistica varia, sconfinata e pluripremiata, di una lunga attività da seduttore seriale, di una capacità non comune di vendersi come prodotto, anche attraverso le pubblicità, di Alain Delon rimane oggi la difficoltà di vivere fuori dello schermo, e con la vecchiaia e la malattia più che la giovinezza come compagne.
Il ricompattarsi dei figli e del cane amatissimo, in occasione della sua morte, ricompone la scena di questa vita, in cui la fama, più di ogni altra cosa, pure più dei sentimenti, ha avuto il suo posto, in prima linea.
Una fama mondiale che non ha conosciuto nella sua dimensione pubblica nessuna flessione, al contrario di ciò che è accaduto nel privato all'attore, e che a causa della sua enorme popolarità veniva rimbalzato in ogni dove.
Perché essere Alain Delon era faticoso, una fatica che si allargava a macchia d'olio con il tempo, anche perché il mondo che lui aveva abitato non esisteva più.
«Non sono una star: sono un attore. Ho combattuto per anni per far dimenticare alla gente di essere un bel ragazzo con un bel viso: è una dura lotta, ma ci riuscirò»
Il mondo in cui si muoveva Alain Delon era un mondo costellato di registi ed attori talmente famosi da averlo totalmente inglobato, al punto da renderlo massa compatta e mai isolata.
E questo mondo/zavorra lo ha trascinato con sé, tanto che per anni la sua immagine è sembrata sempre e solo uguale, come se davvero niente mutasse la sua vita, e come se egli stesso fosse immune da qualsiasi difficoltà esistenziale.
E invece non era così e questo finale umanissimo riporta Delon in una dimensione normale, dimensione normale che per la verità era ben più che visibilem quando si muoveva sulle scene, ma che era oscurata dalla sua bellezza, e da una totale spregiudicatezza del vivere che lo accompagnava, e che gli permetteva, appunto, di essere divino, molto più di quanto non facesse la bellezza stessa.
E poi Alain Delon ha dato il meglio di sé nei film in cui aveva compagni di scena molto più maschi e incisivi di lui, come quando recitava con Jean Gabin, Lino Ventura, Jean Paul Belmondo, che era il suo alter ego cinematografico.
Solo allora la sua bellezza, non efebica, lo portava a essere più se stesso, e quindi più gaglioffo, regalandogli così un’autenticità umana che per il resto del tempo cinematografico non esisteva.
Chi lo ricorda infatti in pellicole più blasonate, non si accorge di come in quei casi lui si muovesse sulle scene senza scomporsi, riflettendo il mondo che gli girava intorno, senza sforzo, perché sapeva benissimo di potere sedurre chiunque, in virtù di quella bellezza, gaglioffa, che agli altri sembrava celestiale.
In questo tourbillon di altissima precisione che era la sua vita, solo la morte di Romy Schneider e la vecchiaia lo hanno distolto e allontanato dalla sua perfetta immagine, che di perfetto aveva solo l'inesauribile convinzione di avere capito come sfangare la vita con successo.
E così la lettera scritta a Romy Schneider, all'indomani della sua morte, ha continuato a portarla nel portafoglio, tutta la vita.
«Ti guardo mentre dormi. Sono accanto a te, sono al tuo letto di morte. Indossi una lunga tunica, nera e rossa, con un ricamo sulla parte superiore. Credo che siano fiori, ma non indugio troppo a osservarli. Ti dico addio, il più lungo di tutti gli addii, bambolina mia. Così ti ho sempre chiamata: bambolina. [...]. Penso anche che è la prima volta in vita mia che ti vedo quieta e serena. Si potrebbe dire che una mano delicata abbia lavato via dal tuo viso paure e dissidi.
Ti guardo mentre dormi. Mi dicono che tu sia morta. In che modo ne sono colpevole io? ...Ci si pone sempre questa domanda davanti a qualcuno che si è amato e si ama ancora. Questa emozione ci sommerge, poi torna indietro e alla fine ci si convince che tutto sommato non si è colpevoli. Non colpevoli, ma comunque responsabili.
Ecco. Lo sono anch'io. È a causa mia che la notte scorsa il tuo cuore ha cessato di battere. A causa mia, perché 25 anni fa fui scelto per essere il tuo partner in "Christine".
Tu arrivavi da Vienna e io ti aspettavo a Parigi con un mazzo di fiori in mano che non sapevo come tenere. Ma i produttori mi avevano detto: "Appena scende dalla passerella, vada da lei e le porga i fiori". Io aspettai con i fiori in mano come un imbecille, in mezzo a un'orda di fotografi.
Tu scendesti dall'aeroplano, io mi avvicinai. Dicesti a tua madre: "Deve essere Alain Delon, il mio partner!" Nient'altro, nessun colpo di fulmine a ciel sereno. Così andai a Vienna, dove si girava il film, ed è stato là che mi sono innamorato follemente di te. E tu ti sei innamorata di me».
Per tutte queste ragioni il film che mi piace ricordare di lui è “Il Clan dei Siciliani” anche perché la colonna sonora di Ennio Morricone ne delinea la genesi, anche e soprattutto dei protagonisti, accompagnandoli da umani non di certo da divi, con una malinconia struggente, più adatta a ognuno di loro.
E poi in quel film Delon è conseguente rappresentazione della realtà, sua e degli altri attori, come lui protagonisti, che ci raccontano di una Francia che noi abbiamo amato attraverso la letteratura, la musica, il cinema, grazie anche ad attori come lui, soli, gaglioffi, talvolta bastardi, ma anche e soprattutto umani.
«Contrariamente a quanto dice la gente, non sono un attore difficile. Lo sono solo con gli imbecilli, ma con i grandi funziono perfettamente».

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