IL MATTINO
Cultura
07.08.2024 - 16:16
Esiste un fil rouge e una continuità tra Georges Simenon, il padre del giallo letterario moderno, e Fëdor Dostoevskij che la lettura delle “Lettere”, a cura di Alice Farina, uscite nel 2020 per il Saggiatore, mettono in evidenza. Una continuità che è anche un cambiamento dal punto di vista della scrittura, e un passaggio da uno stile più emotivo/ introspettivo, a uno più professionale con Simenon.
Fëdor Dostoevskij come Georges Simenon era affamato di vita ma il contesto sociale in cui si muoveva era totalmente differente, anche per via del differente periodo storico, e perché la Russia non era di certo il Belgio o la Francia di Georges Simenon, e lui stesso era ancora troppo legato al mondo in cui viveva, in maniera sostanziale.
Era un uomo che si dibatteva su temi più antichi Fëdor Dostoevskij, temi che lo tenevano legato, ma che proprio perché gli facevano da “camicia di forza” gli permettevano di attraversarli con (complessa)facilità.
«Qui si adoperano in ogni modo per cancellarmi dalla faccia della terra, per il fatto che predico Dio e l'identità nazional popolare».
La sua più che una vita volta a risolvere i problemi alimentari, come Simenon raccontava, era una vita che si muoveva sui binari delle passioni da domare, con la scrittura come unica incertezza /certa che faceva da contraltare, timido, al resto.
E il resto era una condanna a morte evitata sul filo del rasoio, la deportazione, la malattia, quell’epilessia che poi diventò la cifra letteraria di uno dei suoi personaggi più famosi, il gioco, che faceva uscire il lato pusillanime e pavido dello scrittore, lato che poi sulla pagina assumeva i connotati di quella impossibilità inerme di contrastare il male, male che diventava l'unica forza motrice del vivere, e che conduceva alla ribellione e alla salvezza attraverso il delitto e l’espiazione.
Tutto questo ha reso Fëdor Dostoevskij il padre di quella narrazione letteraria che trova nel delitto la sua partizione più felice e il suo finale obbligato. Una partizione in cui la paura del vivere è parte del gioco meschino in cui ci si dibatte, proprio per afferrarla la vita, e le figure che compongono l'opera tutta dell’autore russo sono delle grandi ombre, grandi quanto le paure che lo accompagnavano tutti i giorni, e che solo attraverso la pagina scritta riuscivano ad essere sedate, perdendo quella patina di banalità che è del male stesso.
Perché la seduzione che la banalità del male esercita su chiunque rende compulsiva l'azione degli uomini, svuotandola totalmente di significato, ed è per questo che scriverne serve per mettere ordine alla compulsione, rendendo meno affannosa la ricerca di senso per chi legge.
Se le memorie autobiografiche di Georges Simenon sono il romanzo autentico e primigenio dell’autore, le lettere di Fëdor Dostoevskij, pubblicate tutte e per la prima volta oggi, rappresentano anch'esse la spiegazione passo passo di ogni sua azione letteraria, amplificando così la portata dell'opera del grande russo.
Un'opera dove sono già presenti i semi di quella che oggi è la letteratura del disastro, ovvero la narrazione del quotidiano globale più che della costellazione delle piccole infamità quotidiane.
In Fëdor Dostoevskij, come in Thomas Hobbes, "la paura della morte violenta" si espande e diventa un morbo, perché violenta e inutile è talvolta la vita, ed è difficile attraversarla senza soffrire anche un po'.
Solo la capacità di stupirsi, il miracolo, può risolvere, quel miracolo che egli invoca nella realtà tanto da renderlo una richiesta laica, e che lo porta a scrivere “Il giocatore” e “Le notti bianche”, nella speranza di poter finalmente giocare con la certezza di perdere se stesso, così da smettere per sempre.
«All'inizio ho perso qualcosa, ma appena ho iniziato a perdere mi è venuta voglia di recuperare i soldi perduti e più perdevo, più, ormai contro la mia volontà, continuavo a giocare per vincere almeno i soldi necessari a partire e alla fine ho perso tutto [..] Per me stesso non temo. Al contrario, ora, ora dopo una tale lezione mi sono fatto all'improvviso del tutto tranquillo per il mio avvenire. Ora mi attendono lavoro e fatica, lavoro e fatica e mostrerò cosa posso fare ».
C’è in Fëdor Dostoevskij il bisogno incessante di un confronto, la necessità di una rassicurazione, la ricerca di una consolazione che più che nella scrittura lui tenta di trovare negli umani, e questa ricerca gli fa misurare al millimetro ogni azione delittuosa. Come se il tempo e i passi, che separano pensiero e azione, potessero essere colmati all'improvviso e all'istante da una briciola di umanità, tanto da non fare precipitare nessuno nell’errore/orrore causato dal Male. Forse in virtù di quella morte scampata o forse perché questa vita provvisoria e tesissima sembrava perdersi un attimo prima di afferrarla tra le strade di San Pietroburgo, che ancora oggi percorsa con i suoi libri come bussola restituisce gli stessi odori, gli stessi tempi con cui il grande russo ci ha fatto compagnia.
Dostoevskij e Nabokov: la Grande Russia a confronto
«Dostoevskij non è mai andato oltre l’influenza che il romanzo poliziesco europeo e la novella sentimentale hanno esercitato su di lui. Un’influenza affettiva che implicava quel tipo di conflitto che gli piaceva tanto: mettere persone virtuose in situazioni patetiche, ed estrarre da queste situazioni l’ultimo grammo di pathos ».
È Vladimir Nabokov a scrivere questo, e per quanto la cosa possa sembrare estrema Vladimir Nabokov non ha torto ad affermare questo. Nelle sue “Lezioni di Letteratura”, edito da Garzanti, lo spiega, come lo dimostra una lettura più attenta e meno scontata di Fëdor Dostoevskij, una lettura meno esaltata in buona sostanza, una lettura che tenga conto per davvero di come la diversità e la complessità di generi, all'interno del romanzo di derivazione russa, siano strettamente legate alla varietà di condizioni esistenziali che in Russia esistevano, e che si muovevano su linee assolutamente interdipendenti, al punto che ogni autore russo può permettersi di fare le pulci all'altro senza sbagliare, proprio per la complessità strutturale del paese e della sua costituzione sociale con gli zar e senza gli zar, fatto che soprattutto in Occidente sfugge ancora oggi, perché sia che si parli della Grande Russia o del CCCP, sia che si parli della Russia contemporanea, si tende sempre a trasfigurare la realtà, e a darne una lettura assolutamente emotiva, e invece la vastità di mondi che la Russia ingloba, da sempre, fa apparire periferia qualsiasi luogo, se ci si sposta un po' più in là, come ha fatto Vladimir Nabokov con Fëdor Dostoevskij.
È evidente che il mondo letterario in cui si muove Vladimir Nabokov è altro da quello in cui si muove Fëdor Dostoevskij, proprio perché Vladimir Nabokov guardava con maggiore distacco alla realtà minuta da aristocratico quale era, anche se i difetti che Vladimir Nabokov imputa a Fëdor Dostoevskij scrittore sono un rilievo che lo accomunano a tanti lettori meno scafati di lui.
« I lettori non russi non comprendono due cose: che non tutti i russi amano Dostoevskij, e che la maggior parte dei russi che lo amano, lo venerano come mistico più che come artista. Era un profeta, un paroliere, un giornalista troppo prolisso, un commediante avventato. Ammetto che alcune delle sue scene, alcune delle sue tremende farse, siano straordinariamente divertenti. Ma gli assassini sensibili, le prostitute dall’anima pia, non possono essere sopportate più di un attimo – dal lettore, almeno ».
È davvero così blasfemo ciò che scrive Vladimir Nabokov o semplicemente da lettore attento qual è ha lanciato un sasso enorme che infrange il vetro, che le mode innalzano rendendo letterario ciò che spesso non lo è?
Che Fëdor Dostoevskij possa tranquillamente passare per scrittore di romanzi polizieschi è tutt'altro che sbagliato, proprio perché i piani su cui si muovono i suoi personaggi sono quelli del poliziesco classico, dove più che la caratura della dimensione criminale e la messa in scena conta l'atmosfera compressa, atmosfera compressa che rimanda alla paura di ciò che è ignoto e che trasfigura i criminali stessi tanto da renderli marionette più che protagonisti.
La descrizione dell’ansia che assale i personaggi di Dostoevskij e le atmosfere sono le traiettorie su cui si muovono le pagine dei suoi romanzi.
Non a caso Vladimir Nabokov parla di personaggi pre-freudiani
«La mancanza di gusto e di stile in Dostoevskij, il modo monotono con cui tratta persone che soffrono di complessi pre-freudiani, il tono con cui si crogiola in tragiche disavventure umane che potremmo definire “a buon mercato” e “di cattivo gusto”, beh, sono difficili da ammirare. Non mi piace il trucco con cui ammanta i suoi personaggi, che “peccano fino ad approdare a Gesù” o, come ha detto Ivan Bunin, in modo più sbrigativo, quella pervicacia nel “seminare Gesù dappertutto” ».
È la religione il grande deus ex machina di Fëdor Dostoevskij perché la religione con la sua componente di imponderabilità rende il libero arbitrio inutile, da qui la necessità di caricare al massimo le pagine sulla necessità di purificarsi dal male.
Cose che Vladimir Nabokov non contempla assolutamente, per lui il libero arbitrio è la molla di qualsiasi azione, ed è questa molla che fa scattare il grilletto della curiosità, curiosità che è frutto dell’esasperata ricerca di un approdo per la mente, non di certo di una giustificazione al malessere del vivere, come accade in Fëdor Dostoevskij.
Riconoscere che in Fëdor Dostoevskij e nei suoi monumentali romanzi ci siano le strutture portanti del romanzo poliziesco e della letteratura popolare, quella che è fonte di consolazione per il lettore, non vuol dire sminuirne la portata, se mai è un modo per affinare le capacità interpretative dei lettori e aprire nuovi spiragli, senza niente togliere al genio di Fëdor Dostoevskij e anche a quello di Vladimir Nabokov.
Perché quella Russia che oggi ci piace o ci repelle a seconda di come la guardiamo, rimane la patria della Letteratura e il centro di ogni indagine umana.
edizione digitale
Il Mattino di foggia