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L'Illusione della semplicità: fotografia e parola nell'era dei social media

L'Illusione della semplicità: fotografia e parola nell'era dei social media

Con l’arrivo dell'estate le foto sui social si sprecano e si inseguono, foto che sono diventate il diario non solo del quotidiano di ognuno, ma anche i diari del tempo comune e oggettivo. La vita in estate scorre più leggera e i supporti digitali che possediamo rispondono all'esigenza degli umani di farsi testimoni, e quindi testimonianza, attraverso di loro e attraverso le foto.
Scrivere è molto più complicato, per quanto i più copino/incollino. Un fatto che dimostra come poi gli esseri umani piuttosto che essere uguali a sé tendano a volere emulare gli altri senza sforzo, ma soprattutto senza mettersi in discussione, quello che chi scrive proprio non può fare.
Fotografare sembra, appare, al contrario, un'operazione più semplice .
Ma tutto ciò che appare semplice non lo è affatto.
La semplicità è il più grosso artificio della mente, mente che per rendersi accessibile si scherma sfrondandosi del superfluo, dopo avere schermato ampiamente il necessario, così da farlo apparire evidente e quindi semplice.
In aiuto su questo ci viene la sempreverde Susan Sontag che con il suo libro dal titolo “Sulla fotografia – Realtà e immagine della nostra società”, libro edito da Einaudi e pubblicato per la prima volta nel ‘77, continua a essere ancora una bussola fenomenale in quello che è il mondo vario e variegato della fotografia.
La Sontang analizza la fotografia dal punto di vista sociologico, attenta com'è all’uso della fotografia in luogo del linguaggio, un uso che porta la fotografia alla sostituzione del linguaggio, e alla sua complicazione.
Una foto mette in scena ciò che all'occhio appare in tutta la sua nuda crudezza e senza filtro, a qualsiasi occhio, anche all'occhio meno educato.
A differenza delle foto, quel filtro, che la parola scritta applica su ogni cosa, è di difficile gestione, una foto al contrario con i moderni supporti tecnologici sembra più accessibile.
Non è così e le foto in maniera più cruda e crudele rivelano il mondo tutto, in modo più feroce rivelano il mondo degli altri. Una foto anche quella più asettica e photoshoppata racconta altro da ciò che appare.
E cosa vorrebbe raccontare una foto?
La favola, quella che ognuno in maniera più o meno cosciente racconta a sé, ogni giorno e mentre vive, e cioè che il suo mondo è il migliore dei mondi possibili. Una favola "dal mondo nuovo", senza Dvorak come colonna sonora. Al contrario, spesso, la colonna sonora a supporto delle foto riporta le foto a una dimensione più terrena e molto meno glamour. I suoni sono espressione più carnale e per ciò stesso meno addomesticabile dell'occhio che incatena se stesso.
« La macchina fotografica coglie effettivamente la realtà, e non si limita ad interpretarla, le fotografie sono un’interpretazione del mondo esattamente quanto i quadri e i disegni.
Ed è proprio questa passività – e ubiquità – del documento fotografico il “messaggio” della fotografia, la sua aggressione.
E la successiva industrializzazione della tecnologia fotografica non ha fatto che dar corpo a una promessa insita nella fotografia sin dagli esordi: quella di democratizzare tutte le esperienze, traducendole in immagini.
[...] Conservare il ricordo delle gesta di singoli individui, intesi come membri di una famiglia, è la più antica utilizzazione popolare della fotografia.
Le macchine fotografiche accompagnano la vita della famiglia.
Attraverso la fotografia ogni famiglia si costruisce una cronaca illustrata di se stessa, ( cronaca che riesce) a perpetuare nel tempo.»
La Sontang pure non avendo previsto l'eccesso di foto, propria del nostro tempo e il bisogno di deità delle masse, sempre più masse e nient’affatto dei, aveva centrato perfettamente il problema.
Gli esseri umani di cui scrive a mano a mano che perdono la capacità di intercettare la realtà si riversano nei luoghi più disparati cercando di "colonizzarli" attraverso le foto, non per riuscire a comprendersi meglio ma semplicemente per vivere in maniera più compulsiva e inconsapevole, e grazie alle foto esercitano questo dominio, e si fanno attori politici, democratici, cittadini di un mondo globalizzato, uguale, un mondo dove la diversità viene limata, conglobata, fagocitata dalle fotografie, e le fotografie per ciò stesso diventano ancora più testimonianza esatta del tempo.
«Fotografare significa appropriarsi della cosa che si fotografa.
Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere. Si ritiene che sia stata una prima e ormai notoria caduta nell’alienazione, abituando gli uomini ad astrarre il mondo e a tradurlo in parole stampate.
[...] Ciò che si scrive su una persona o su un evento è chiaramente un’interpretazione, come lo sono i rendiconti visivi fatti a mano. Le immagini fotografate invece non sembrano tanto rendiconti del mondo, ma pezzi di esso, miniature di realtà che chiunque può produrre o acquisire.
Invecchiano, afflitte dai mali comuni a tutti gli oggetti di carta; spariscono; diventano preziose; vengono comprate o vendute; vengono riprodotte. Le fotografie, che impacchettano il mondo, sembrano sollecitare l’impacchettamento. Le pubblicano i giornali e le riviste.
Le fotografie forniscono testimonianze. In una versione della sua utilità, il documento fotografico incrimina.
Le fotografie sono diventate un utile strumento degli stati moderni per sorvegliare e controllare popolazioni sempre più mobili. In un’altra versione della sua utilità, il documento fotografico comprova. È una dimostrazione incontestabile.
Una fotografia sembra avere con la realtà visibile un rapporto più puro, e quindi più preciso, di altri oggetti mimetici.
Una fotografia può essere considerata una trasparenza strettamente selettiva.
I fotografi anche quando si preoccupano soprattutto di rispecchiare la realtà, sono comunque tormentati dai taciti imperativi del gusto e della coscienza».
I fotografi sono tormentati dai taciti imperativi del gusto e della coscienza e invece le masse cosa cercano?
Le masse probabilmente cercano la perfezione e la levigatezza che il tempo restituisce a ognuno secondo la materia prima che possiede, vedi corpo, e quando non basta una foto arriva in soccorso la chirurgia estetica, che ingigantisce e fissa una parvenza di gioventù in luogo delle linee del tempo, tanto da copia incollare le persone.
E così foto e parole diventano uguali espressioni dell’animo umano come mai era accaduto fin d'ora, il costo di questa operazione?
La morte dei sensi e della capacità di smuovere la realtà che solo una foto autentica, così come una parola esatta e ragionata, possono fare, a patto che l'umano che le esprime sia consapevole e non solo un compilatore di ovvietà di propaganda, ormai più rassicuranti degli antidepressivi.

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