IL MATTINO
Cultura
18.11.2023 - 12:10
«Uccidere è un po’ come fare l’amore, una specie di volontà di possesso» - scriveva nel 1950 Patricia Highsmith e su questo eterno binario di Eros e Thanatos che si scandaglia il suo percorso letterario.
Se i gialli fossero stati sdoganati del tutto e non continuassero ad essere considerati un genere letterario minore, un modo soprattutto per sbarcare il lunario per scrittori in crisi d'identità, e a caccia di facili lettori, probabilmente l'opera di Patricia Highsmith sarebbe Letteratura e basta, come è anche nel caso di Georges Simenon. In entrambi non esiste alcuna curiosità per i colpevoli, o meglio in loro non esiste il bisogno catartico di fare trionfare il bene attraverso la messa in colpa del cattivo, ma esiste la necessità di fare muovere i protagonisti delle loro storie nella grande casa del romanzo novecentesco, quello psicologico. Che poi alla base della realizzazione identitaria dei loro personaggi ci sia la diversità - il criminale comunque è un diverso in quanto non omologato a livello sociale - è un elemento che più che avvicinarli ai costruttori di storie chiuse, i giallisti, li rende più intimi degli autori russi, tanto più che come questi andavano da un estremo esistenziale all'altro.
Ma veniamo a Patricia Highsmith.
Era una grafomane Patricia Highsmith e l’esistenza di cinquantasei quaderni, quasi ottomila pagine, ritrovati dopo la sua morte lo testimonia. I quaderni sono stati pubblicati nel 2021 dall’editore Liveright in un unico volume di 650 pagine, completo di schizzi e disegni ad acquarello dell’autrice, curati da Anna von Planta, suo editor, e da Daniel Keel, il suo esecutore testamentario. La sua grafomania è testimoniata anche dal suo bisogno di rendere chiaro e accessibile a chiunque ciò che scriveva, che poi altro non è la sua grafomania che un bisogno di confidenza con il lettore, come dimostrano le postfazioni ai suoi libri. Ed è lì più che nel libro stesso che risiede la chiave di volta e la matrice del romanzo novecentesco delle sue opere, perché è lì che la costruzione delle sue storie diventa testimonianza sociale e quindi Letteratura. Scriveva Marcel Proust ne la Recherche che molto spesso si comprende meglio un avvenimento storico leggendo un romanzo piuttosto che leggendo un testo accademico, l'esempio classico è “Guerra e pace” di Tolstoj per l’avventura di Napoleone in Russia, ma nelle postfazioni di Patricia Highsmith c'è anche il bisogno di non farsi attraversare dal lettore senza che questi legga non ponendosi domande.
Ogni storia da lei narrata trova nella postfazione la ricostruzione meticolosa di tutto il percorso operato per arrivare a dare consistenza alle sue impressioni di vita, e per poterle trasformare in storie che accompagnassero le vite degli altri, mutandone lo sguardo.
Questo suo essere presente e in ogni dove le ha permesso di attraversare il genere letterario, in cui era stata posta suo malgrado, in maniera disinvolta, al punto di riuscire a narrare anche di un amore tra due donne in maniera risolta, in un epoca in cui era altamente improbabile che la storia d'amore tra due donne potesse essere narrata, e potesse avere un romantico lieto fine, visto che “Carol” pubblicato nel 1952 con lo pseudonimo di Claire Morgan, alla fine, grazie a lei, diventa una storia d'amore tutt'altro che drammatica, anche per la sua capacità di giocare, con leggiadra, con Eros e Thanatos.
«Ebbi l'ispirazione per questo libro nel 1948, quando vivevo a New York. Avevo appena terminato "Sconosciuti in treno"[Strangers on a Train], che sarebbe stato pubblicato nel 1949. Si avvicinava Natale ero vagamente depressa nonché a corto di denaro, e per guadagnare qualcosa accettai un posto di commessa in un grande magazzino di Manhattan
[…] Non cominciai a scriverlo immediatamente, il libro. Preferivo lasciare cuocere le idee a fuoco lento, per settimane. Tra l'altro "Sconosciuti in treno" venne pubblicato e, poco dopo, venduto ad Alfred Hitchcock che voleva farne un film […] "Sconosciuti in treno" era stato pubblicato da Harper&Bros, come si chiamava allora la casa editrice, come romanzo di suspense, per cui dalla sera alla mattina ero diventata un’autrice di gialli, sebbene Sconosciuti, a parer mio, non rientrasse in alcuna categoria: era semplicemente un romanzo con una storia interessante. Se avessi scritto un romanzo su un rapporto fra lesbiche, mi avrebbero etichettata come scrittrice di libri per lesbiche? Non era da escludere […] Decisi, perciò, di presentarlo sotto uno pseudonimo.
[…]In precedenza, nei romanzi americani gli omosessuali, maschi e femmine, avevano dovuto pagare il fio della loro deviazione ( attraverso la morte, attraverso la redenzione eterosessuale, attraverso la depressione) che equivale a un inferno in terra. […] Preferisco evitare le etichette. Sono gli editori americani ad amarle»
È possibile etichettare i libri, e fino a che punto questa operazione comprime un autore determinandone la scelta stilistica?
Con Patricia Highsmith questo discorso non ha funzionato, nel senso che poi averla voluta ingabbiare ed etichettare non ha modificato l'andamento della sua attività tanto più che lei passava da un estremo all'altro, non per qualunquismo ma proprio per aderenza al suo modo di vivere, tanto che questo suo estremismo non era solo della pagina scritta, ma era nella pagina scritta che riversava il suo essere estrema, scissa, e il prodotto, quello finito, che arrivava alla pubblicazione, era frutto di un enorme lavorio di scrittura privata, un binario doppio, anche in questo caso, dove niente veniva nascosto.
Aveva avuto un'infanzia difficile Patricia Highsmith e un rapporto conflittuale con sua madre, era bisessuale ma faceva fatica proprio ad esserci dentro a un rapporto, tanto che nelle sue storie poi proprio i rapporti interpersonali sono a tratti sfocati, e se sfociano nella morte accade proprio per l'impossibilità di liberarsi da questo groviglio di non vissuto, groviglio che nemmeno i sentimenti e le passioni riescono a dissolvere.
I colpevoli o gli assassini nei suoi libri arrivano a scambiarsi i crimini, come se fosse un gioco o come se semplicemente questa possibilità multipla, di essere se stessi, fosse un modo per potersi interfacciare con più facilità con l'altro, al punto di tracimare nella sua vita, una possibilità che è del male o dell'impossibilità di vivere, così che uccidere rimane l'unica scelta possibile per agire.
Arrivò al punto di andare in terapia per accettare il matrimonio, una cosa che in “Carol” cerca di fare quadrare e che porta alla luce, eppure più che nei confronti delle donne il suo disprezzo era per «il maschio americano, che non sa cosa fare di una ragazza una volta che l’ha avuta. Non è veramente depresso o inibito dalle sue restrizioni puritane ereditate o interiorizzate: semplicemente non ha obiettivi riguardo al sesso», tutte tematiche presenti nei suoi libri, tanto da essere proprio questa depressione e questa inibizione le molle che portano poi i protagonisti delle sue storie a delinquere.
“Il suo mondo è senza fini morali” - scriveva Graham Greene e questo più che la suspense o il giallo è il terreno su cui si muove, un mondo in cui morire e vivere sono scelte prive di risvolti giustificatori, perché non esiste nessuna giustificazione per la vita e per la morte.
La sua quindi è una ricerca filosofica, perché il suo essere umanamente affollata da sentimenti vari, che erano anche repulsioni, la spingeva al di là di qualsiasi etichetta, tanto da farti arrivare, a seconda del suo umore, sotto terra o a un incontro galante, con la stessa raccapricciante voglia di fuggire senza sapere dove andare.
Una scrittura la sua che era un vagabondaggio interiore incessante, vagabondaggio che non trovava e non cercava assoluzioni né sconti.
Del resto viveva in un casolare con le sbarre alle finestre, un luogo che a tutto faceva pensare tranne che a una tana confortevole, un ulteriore modo, questo, per “contenere” la difficoltà del vivere. Non a caso è in questa “tana” che ogni volta ci trascina, facendoci sentire in bilico, sospesi come siamo dal bisogno di essere amati mentre sfuggiamo alla morte, una morte che mette a nudo la nostra mediocrità. L'unica soluzione rimane quella di dare spazio a personaggi dalle vite interrotte, gli unici che per noia possano macchiarsi di un crimine, la stessa noia che “muove” la vita degli autori da sempre e che solo la scrittura con le sue macchinazioni immaginifiche riesce a placare.
edizione digitale
Il Mattino di foggia