IL MATTINO
Analisi
08.06.2023 - 15:35
Alcolismo e arte sono sempre andati a braccetto dalla notte dei tempi, o meglio l’alcool è considerato un elemento non negativo, né dannoso per gli uomini, e a differenza di qualsiasi altra sostanza psicotropa gode di una fama imperitura, basti pensare che la prima e unica campagna contro l'alcool fu quella fatta in America nel periodo del proibizionismo.
Dopo di questo non c’è stato più nulla, o meglio il silenzio (vedi accettazione sociale) da sempre copre i danni che l’alcool provoca, e questo rende "il problema alcool" difficilmente affrontabile, poi con la bella stagione la voglia di bere aumenta, complice una maggiore leggerezza del vivere, e quella birretta fresca consumata al tavolino del bar preferito, in compagnia degli amici, sembra togliere, all’istante, il peso di qualsiasi problema, di qualsiasi solitudine. Non è così perché aggrapparsi al bicchiere è un attimo, e le vite che vanno a passo di alcool sono diffuse, e sono vite di tutti, nel senso che c’e è chi si alcolizza con il Tavernello, c’è chi si alcolizza con i superalcolici, e c’è chi beve di tutto senza nemmeno avere una preferenza, perché il mercato dell'alcool è un mercato amplissimo, diversificato, un mercato che non conosce flessioni tra l'offerta e la domanda.
I danni sociali di questo fenomeno sono incalcolabili, e così le violenze nascoste e le vite disturbate che questa piaga sociale, è una piaga sociale, miete sono lontane dal potere essere quantificate.
Probabilmente proprio perché autori culto come Ernest Hemingway, il più consapevole tra i tanti scrittori, artisti, che sul vino ci hanno lasciato pagine di letteratura, lo viveva come una parte di sé ineludibile al punto di dire:
“Un uomo intelligente a volte è costretto a ubriacarsi per passare il tempo tra gli idioti”.
Era un bevitore “professionista” Hemingway e nei suoi anni cubani contribuì al successo planetario del daiquiri, il cocktail a base di rum e zucchero di canna. Il suo preferito era quello che facevano a L’Avana, a Cuba, al celebre bar Floridita. La leggenda vuole che gli piacesse così tanto da berne 17 di fila.
Tutto documentato in “Festa Mobile”, libro postumo in cui racconta i suoi anni a Parigi in compagnia dell’alcool e di Scott Fitzgerald, Gertrude Stein, Pablo Picasso, Ezra Pound tra i tanti, con incursioni appunto anche Cuba.
Hemingway era anche un grande fan del Martini citato anche in “Addio alle armi”: “Non avevo bevuto nulla di così bello e pulito“. Come pure da frequentatore di Cipriani a Venezia veniva anche conosciuto come il "Re dell' Harry’s Bar", l'unico cliente con cui Giuseppe Cipriani, padre di Arrigo, si sedesse e che potesse dirsi suo amico. Passava il tempo ad osservare il mondo per poi andare a scrivere ogni sera, alla 22, al piano superiore della Locanda di Torcello, dove lo aspettavano sei bottiglie di Amarone del Veneto, che consumava tutta la notte.
Allora stava scrivendo “Al di là del fiume e degli alberi”, e spesso i dialoghi del bar erano riportati tra le pagine del libro, un fatto tutt’altro che raro tra chi scrive.
Aveva persino inventato un drink il “Montgomery Martini”, una versione strong del Dry Martini, un drink che si trova ancora oggi nel menù dell’Harry’s Bar. Il nome glielo diede lui per la proporzione di Gin e Vermouth da mescolare, la stessa utilizzata dal generale Montgomery per la battaglia di El Alamein: quindici soldati italiani e uno inglese.
Giuseppe Cipriani quando lo bevve ci mise tre giorni per smaltire la sbornia.
In tutto questo trambusto, chiamiamolo così, sfugge l'unico dato utile e cioè che Hemingway morì suicida, perché l’alcool è una stampella pericolosa che ha il potere di esasperare noi stessi mentre ci illude di alleggerirci, e nonostante lui bevesse e scrivesse con la stessa energia furiosa non riuscì mai a fare i conti con la solitudine, e averci di messo di mezzo l'alcool ne aveva complicato la gestione, amplificandone la portata.
« Il fenomeno dell’alcolismo ha una generale ragione: isolare la percezione di sé al puro vissuto presente, rendendoci incapaci di collegarci con il passato o con il futuro. Questa condizione genera un curioso paradosso: l’alcolista non rifiuta totalmente la vita, ma abbraccia una forma peculiare di morte. La morte di sé in quanto persona. Una persona è un uomo e ogni uomo si distingue da un altro principalmente per il proprio passato e per la propria progettualità rispetto al futuro. Sicché egli rifiuta la vita nel senso compiuto del termine, cioè, dal punto di vista fenomenologico, non vuole riconoscersi come quell’essere che ha vissuto e che vivrà, ma accetta la vita nel solo momento presente. Questo è un paradosso perché è un desiderio che non può realizzarsi: nessuno può smettere di essere quello che è, a meno di cessare di esistere, di morire. E questo vale anche nelle condizioni più estreme: si può essere incoscienti di ciò che si è, ma non si può smettere di essere quel che si è. Anche volendolo, perché volere implica già essere (come dimostrò in modo definitivo René Descartes nelle Meditazioni metafisiche): non si può volere di non volere, perché non volere è già un atto di volontà (come dimostrò John Locke nel suo Saggio sull’intelletto umano). Non è inconsueto che alcuni individui, particolarmente resistenti agli effetti dell’alcolico, “sfidino” la propria coscienza per vedere fino a che punto resiste. In questa sorta di “sfida”, che rasenta una forma peculiare di schizofrenia selettiva, emerge chiaramente il disagio del sé nei confronti del mondo o della vita. Si può desiderare di ubriacarsi per dei motivi precisi, ma anche per nessun motivo eccetto che per il fatto di non volere più vivere così come si è fatto fino a quel momento: si vuole una tregua, una sospensione».
Ma come ci ricorda Valerio Magrelli attraverso Ernst Jünger, che nel suo saggio: “Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza”, edito da Guanda, fa una vasta escursione dall’alcool fino all’acido lisergico, per concludere amaramente: «Nell’ebbrezza […] porzioni di tempo vengono anticipate, amministrate in modo diverso, prese in prestito; e questo prestito va restituito»
E quindi la tregua, la sospensione, non esiste, ma esiste il prestito, prestito che è la vita stessa, quella che l'alcool non può mutare in tempo giusto da vivere per ognuno, ma che però esige per sé.
edizione digitale
Il Mattino di foggia