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Intervista

Davide Morganti il sacerdote della scrittura

Davide Morganti il sacerdote della scrittura

Davide Morganti è uno scrittore di talento che continua a mantenere una sua particolare difficoltà a mettersi in mostra, nel senso che per lui scrivere è un fatto naturale, un fatto naturale che è frutto di grande dedizione, una dedizione che non prevede un approccio commerciale al lavoro. Questa sua purezza lo mette in cortocircuito con l'altra parte, parte oggi preponderante dello scrivere, che è quella commerciale.
Davide Morganti una volta finito di scrivere un libro, vuole sì parlarne ma vorrebbe che ci fosse una rete a supporto del suo lavoro, rete che lo accompagni e esca allo scoperto per lui, anche perché è molto timido.
Questa cosa oggi è pressoché impossibile, la bravura e la scrittura si coniugano anche con la capacità di essere pressoché neutri e spendibili, perché oggi i libri sono un prodotto commerciale indistinto, più che il frutto dell'intelletto. Per quanto questo sia un fatto utile, è bene sottolineare che è utile fino ad un certo punto, ed è utile soprattutto con chi fa della visibilità una componente più forte della scrittura stessa.
Non è il suo caso.

Partiamo dal suo ultimo, ed enciclopedico, romanzo “l' Atlante della fine del mondo”, edito da Cafiero &Marotta, un’opera che si compone di cinque volumi.
È un lavoro questo ultimo che copre dieci anni di vita, il tempo necessario per la ricerca e per la costruzione delle storie. "L'Atlante della fine del mondo" si compone di cinque libri perché il protagonista si muove in cinque continenti. I cinque libri li ho ancorati alla realtà, in maniera che le storie avessero non solo un radicamento letterario, ma avessero anche e soprattutto un fondo di verità.
Cos'è per lei la Letteratura?
La Letteratura è per me la capacità di guardare lontano, di saccheggiare dentro di me. Un fatto questo che porta anche a inventare, da qui la necessità di avere uno sfondo reale in cui fare confluire le storie, perché nell’ Atlante ci sono ventuno lingue a cui dare corpo, un'operazione questa anche di geopolitica, un modo per aprirsi alla diversità e all'accettazione dell'altro. Non volevo fare ciò che gli Americani fanno con noi, e cioè non volevo disegnare un mondo univoco.
Il libro è dedicato a suo figlio perché?
Mio figlio è un cultore delle lingue orientali, tanto che vorrebbe studiarle all'IUO, e molto mi ha aiutato a capire, attraverso le sue spiegazioni, quel mondo di cui assorbiamo l’esotismo, più per sentirci alla moda che per vera condivisione. Poi per esempio per quanto riguarda Il Vietnam ho pensato a Kieslowski e alle sue beatitudini, e al modo in cui i bonzi scelgono di morire.
Qual è stata la cosa più difficile da scrivere?
Sembrerà strano ma è stato difficile raccordare i passaggi da un paese all'altro. Non volevo ripetermi e non volevo essere scontato.
Come lo guarda il mondo il protagonista del suo Atlante?
Casimiro guarda al mondo con sospetto ma anche con grande curiosità. Per lui, che è un pavido, questo lungo viaggio è anche un modo per riagganciarsi alla realtà in maniera più ottimistica. Per Casimiro il mondo non è un posto idilliaco, e quindi il suo viaggio è una sfida, innanzitutto con se stesso e poi ai luoghi comuni.
Da dove parte il viaggio di Casimiro?
Il viaggio di Casimiro parte dalla Basilicata. Ho ipotizzato che un maresciallo è sul torpedone che appare, nel 1964, nel film di Pasolini “Il Vangelo secondo Matteo”. Pasolini sta girando la scena della Crocifissione tra i sassi di Matera, il torpedone è sullo sfondo. Insomma ho scritto che sul torpedone c’è questo maresciallo che vede da lontano la croce, e incuriosito decide di scendere dal torpedone. Prende una vespa, e piano piano, a mano a mano che la Vespa si avvicina ai sassi, si convince che Cristo sia venuto per riparare al male, per recuperare il fallimento della sua prima crocifissione. Arrivato ai sassi si aggira nel luogo con fare guardingo, incontra Pasolini, che crede sia il demonio, e in un delirio crescente il maresciallo si ritrova crocifisso.
Accanto alla Crocifissione c’è nell'Atlante anche la Resurrezione, questa volta il racconto è ambientato in Danimarca
Carl Theodor Dreyer è uno dei miei registi preferiti. Nel ‘55 girò questo film dal titolo “Ordet”(La parola) film che è tratto da un testo teatrale di Kaj Munk. Nel racconto narro dell'attrice Brigitte Federspiel che nel finale del film risorge, grazie alla voce di Johannes, “il matto di casa”, il quale credeva che, come Cristo, avrebbe potuto fare risorgere i morti, con la parola. Brigitte Federspiel ci crede davvero, io racconto il suo ultimo giorno di vita.
Cos’è per lei la religione?
Fin da piccolo per me la religione, la componente religiosa, è stata molto forte, e poi ho fatto mio ciò che dice Giobbe: “Nulla è impossibile per Dio”. Questo mio modo religioso di sentire la vita mi ha fatto appassionare alla teologia. Il mio sogno era proprio quello di diventare uno scrittore religioso. I frammenti, gli epigrammi riescono a contenere l'essenziale, e l'essenziale ha in sé il mistero del miracolo. Tutte cose in cui credo fermamente.
E del miracolo dello scudetto del Napoli cosa mi dice?
Sono tifosissimo del Napoli, e sono stato assolutamente d'accordo con De Laurentiis, sempre, ho appoggiato anche la cacciata dei pretoriani. Mi piace anche il tennis, molto, e lo seguo di notte, nelle pause che mi ritaglio mentre scrivo. Non a caso sto scrivendo un libro su Monica Seles.
Che altro c'è nel suo cassetto?
Nel mio cassetto ci sono due romanzi. La scrittura è la mia possessione assoluta, in pratica è il mio tutto, non potrei vivere senza, e quindi è praticamente impossibile che il mio cassetto sia vuoto.
La sua famiglia aveva l’edicola in piazza Amedeo, all'uscita della metropolitana, cosa ricorda di quel periodo?
All'edicola ci andavo di pomeriggio, la mattina andavo a scuola a insegnare, e non è che dimostrassi grande trasporto per il mestiere di giornalaio, non era il mio lavoro. Una volta una persona mi riconobbe, e meravigliato di trovarmi lì, mi disse: “Lei è uno scrittore”, un'affermazione la sua che mi colpì. Per il resto io e il mio amico Marco Marsullo passavamo il tempo a scherzare, al punto che lui un giorno mi disse: “Ma ti rendi conto di quanto siamo pazzi, pensa se un giorno, mentre tu stai presentando un libro, da Feltrinelli si alza qualcuno è dice: “Ma lei è l'edicolante di Piazza Amedeo, e il suo amico dov'è? Sai che figura?”

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