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Riletture: Josif Brodskij, "Fondamenta degli Incurabili"

Riletture: Josif Brodskij, "Fondamenta degli Incurabili"

La casa editrice Adelphi ha ristampato “Dolore e Ragione” di Josif Brodskij, dando così al poeta russo un’ulteriore possibilità di lettura, perché benché Josif Brodskij sia un poeta frequentemente nominato, soprattutto quando si vuole fare colpo, è ancora molto lontano dall’essere frequentato.
Basta andare nelle grandi librerie supermercato e chiedere di lui, delle sue opere, si trovano nelle ultime file degli scaffali, e con molta fatica, e se si è fortunati, di suoi libri se ne trovano un paio.
Questo dimostra come la vita immaginata dei libri e degli autori sia altro dalla vita vera.
Ed è per questo che accanto a “Dolore e ragione”, una raccolta di saggi, che aiutano a comprendere non solo più a fondo l’opera del premio Nobel Josif Brodskij, il mondo bipolare in cui vivevamo, mondo diviso tra Capitalismo e Comunismo, vi consiglio di leggere anche “Fondamenta degli Incurabili”, proprio perché adesso li troverete entrambi (“Fondamenta degli Incurabili” è il suo libro più letto) e perché le opere di Brodskij si leggono insieme. Ognuna si incastra all'altra così da amplificarne la portata.
Ma perché “Fondamenta degli Incurabili” è un libro così amato?
Perché parla di Venezia e la restituisce a chi legge in tutta la sua estetica e decadente bellezza, che poi è l'estica e la decadente bellezza dell'Occidente tutto, agli occhi del poeta.
Venezia è lo specchio e « Brodskij aveva un approccio non frontale allo specchio, ma, come molti uomini, si guardava di sbieco. Aveva una sorta di mercurialità nel carattere, che lo rendeva sfuggente, inafferrabile, e ambivalente fino all’ubiquità. Quantomeno mimetico. Aveva un’identificazione multipla con i personaggi che vedeva sui quadri, diciamo che era capace di rispecchiarsi quasi in tutto il presepe».
Come accade a Venezia, da qui l'importanza di questo libro per la comprensione della sua opera omnia, e anche di Venezia, città in cui riposa, nel cimitero di San Michele.
Ogni anno in prossimità delle feste natalizie, Josif Brodskij si recava a Venezia.
Riteneva che fosse l’unico periodo possibile per viverla.
La nebbia, i colori smorzati, il suono dell’acqua, non erano disturbati dallo sciame di turisti, e permettevano all’occhio di studiare il mondo esteriore, perché le basse temperature erano il clima ideale per rendere omaggio alla sua bellezza.
E poi la nebbia consentiva di dimenticarsi di sé, in una città che aveva smesso di farsi guardare.
Del resto per lui le stagioni erano delle metafore, e l’inverno da qualsiasi continente lo guardasse era un po’ Antartico.
Venezia diventava per lui S. Pietroburgo, perché la distanza d’emisfero era solo una variabile geografica che non incideva sui sensi. Solo in questa città, i suoi nervi riuscivano a distendersi e poteva diventare l’anonimo poeta (lui che non aveva voluto essere uguale) perché la bellezza della città prendeva il sopravvento, rendendo tutto superfluo, inutile.
Basterebbe questo per fare di" Fondamenta degli incurabili, un libro da custodire gelosamente perché l’acqua, oltre alla città e ai sensi, sono i protagonisti assoluti, l'essenza della scrittura, dunque.
L’acqua è il luogo dove il tempo fisico e quello metafisico si fondono.
L’elemento che mette in discussione il principio d’orizzontalità, che rivela la profonda solitudine di ogni essere umano, la sua precarietà, trasformando anche i piedi in organo dei sensi.
E se l’acqua è uguale al tempo, Venezia che dall’acqua è toccata, non fa altro che migliorare, abbellire il tempo, restando uguale a se stessa.
Per Brodskij, annusare Venezia è come toccare la propria essenza dispersa, entrare nel proprio autoritratto, essere felice.
Una felicità legata all’equilibrio sensoriale, l’unica che avrebbe potuto accettare.
E poi l’immagine di una donna italiana, incontrata anni prima in Unione Sovietica, quando ancora non sapeva che in Occidente la bellezza poteva essere comprata, ma soprattutto il riconoscere sulla sua pelle, l’odore di un profumo «mesmerizzante»,«Shalimar?» si chiede.
Un profumo usato da Gloria Swanson che in ogni contratto firmato pretendeva l’intera linea della famosa fragranza della Guerlain.
E poi I Mottetti di Montale, poeta amato, la visita alla moglie di Pound, Olga Rudge, la sua voce, un disco senza pause.
L’occhio.
Quell’occhio che precede la penna, e la necessità, nella città dell’occhio, di avere abiti adatti, belli, capaci di muoversi simmetricamente, per tenere testa a tanta perfezione.
Abiti che una volta tornati nel mondo non avrebbero più avuto la stessa urgenza di essere indossati. Perché a Venezia, l’occhio è finalmente libero di tendersi, di respirare, mentre il corpo diventa un suo veicolo.
«[...] l'occhio è sempre in cerca di sicurezza. Questo spiega l'appetito dell'occhio per la bellezza, e l'esistenza stessa della bellezza è innocua, è sicura. Non minaccia di ucciderti, non ti fa soffrire. Una statua di Apollo non morde, né morderà un cagnolino del Carpaccio. Quando non riesce a trovare bellezza — alias sollievo — l'occhio ordina al corpo di crearla o, in alternativa, lo adatta a cogliere il lato buono della bruttezza... Perché la bellezza è là dove l'occhio riposa — nella bellezza l'occhio ha la sua pace — per parafrasare Dante. Il senso estetico è gemello dell'istinto di conservazione ed è più attendibile dell'etica. L'occhio — principale strumento dell'estetica — è assolutamente autonomo. Nella sua autonomia è inferiore soltanto a una lacrima».

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