IL MATTINO
Analisi
27.01.2023 - 16:18
L'arresto di MMD oltre a scatenare curiosità di tutti i tipi su questo personaggio ha riportato in circolazione anche il film di Giuseppe Tornatore “Il camorrista”, un film che ancora oggi a rivederlo regala inquietudine, e fa comprendere come l’epopea criminale di Raffaele Cutolo sia stata seguita da tutti gli altri criminali, benché il delirio di onnipotenza de “U professore” fosse di gran lunga più smisurato di tutti quelli che dopo lo hanno emulato. Con la morte di Raffaele Cutolo è finita, e per sempre, una storia criminale e politica che, se avesse attraversato solo la Campania, si sarebbe chiusa quando Raffaele Cutolo venne arrestato, nel ’79, ad Albanella, e invece così non è stato, e per quanto la morte di ognuno meriti rispetto non è possibile non sentirsi liberati da un peso in questo caso. Il peso è quello di un uomo che pure in galera dava fastidio, al punto da essere uno dei pochissimi detenuti, il solo, ad essere stato condannato al carcere duro, tutta la vita, e che dal carcere nonostante tutto è riuscito a vivere, ad avere un futuro, grazie anche alla moglie e a quella figlia che in provetta, insieme, hanno messo al mondo, figlia che è la sua unica erede diretta. Chi ha vissuto nell'epoca in cui Raffaele Cutolo era il boss e il signore incontrastato del crimine, ancora sente su di sé la paura che in quegli anni si respirava, paura che derivava dal suo essere criminale in maniera spietata, disumana, feroce, una cosa che Giuseppe Tornatore, grazie alla felice interpretazione di Ben Gazzara, nella parte di Raffaele Cutolo , traccia con tale abilità nel suo film “Il Camorrista” che il film venne ritirato dopo due mesi dall'uscita dalle sale, e anche andarlo a vedere - ricordo che al Fiorentini a Napoli eravamo in quattro in sala alla prima - rappresentava, allora, un atto di coraggio. Del film oltre che la versione cinematografica esiste anche una versione televisiva, versione della durata di cinque ore, mai andata in onda, per quanto il film per anni sia stato trasmesso sulle reti televisive delle Tv di quartiere napoletane, mentre venne trasmesso, per la prima volta e in prima serata, da Rete 4, il 20 Marzo del 1994 a quasi otto anni dalla sua prima uscita nel 1986. Il film era liberamente tratto dal romanzo di Joe Marrazzo, cronista che seguiva Raffaele Cutolo e le sue gesta criminali per dovere di cronaca, e che per questo lo conosceva abbastanza da poterne scrivere in maniera libera e fedele, nel senso che Joe Marrazzo dava la misura di ciò che Raffaele Cutolo rappresentasse, senza beatificarlo ma restituendolo alla zona d'ombra in cui un criminale come lui era giusto che stesse. E Raffaele Cutolo mal sopportava il ritratto che ne faceva Joe Marrazzo ne “Il Camorrista. Vita segreta di don Raffaele Cutolo" perché, di fatto, facendolo parlare in prima persona, ma non per sua scelta, e attribuendogli anche il delitto di Vincenzo Casillo, suo fedelissimo - questi erano i due punti che Raffaele Cutolo proprio non digeriva del romanzo su di lui - lo disarcionava, gli toglieva voce, e per questo potere, cose per Raffaele Cutolo inconcepibili. Ma cosa rende ancora oggi così doloroso e così difficile da accettare quel periodo e la parabola criminale di Raffaele Cutolo? Il terrore e la lucidità con cui si stringevano patti, si facevano affari, si piegavano territori e persone agli interessi criminali di una "famiglia", non di persone libere quindi, ma di belve, belve che si muovevano in branco, e in branco cercavano un posto al sole, oscurandolo il sole per tutti. Tutto questo permise a Raffaele Cutolo, e ai suoi sodali, di diventare l’ago della bilancia per la gestione della zona grigia, quella che fa da cuscinetto tra il crimine e la legalità, zona grigia in cui lui si era messo di prepotenza rendendola luminosa, troppo, tanto che lo Stato dovette punirlo, in maniera esemplare, murandolo vivo. E Raffaele Cutolo si fece murare, senza mai rivelare intrecci, plot, realissimi, frapponendosi ancora una volta tra la realtà, la sua, e quella degli altri così da ritagliarsi un ruolo ancora, e senza che nessuno potesse scalfirlo, nemmeno il dolore di chi per sua mano, e per la sua violenza era stato taglieggiato, ucciso, brutalizzato. È difficile fare rivivere il terrore di quegli anni in chi soprattutto oggi, del crimine, ha un'immagine da serie televisiva, e pensa al crimine in maniera distante. Raffaele Cutolo inondò di cocaina il paese, e questo insieme al resto diede il via a quella criminalità che tanto ci piace guardare in TV e sugli altri supporti digitali, e favorì l'integrazione sociale come mai era accaduto in Italia e altrove, visto che la cocaina da droga per pochi diventò il cemento per le amicizie di ogni genere, amicizie che ancora oggi sono incancrenite proprio grazie a quell’avvento. Tutto questo serve a rendere Raffaele Cutolo un personaggio da ricordare o da assolvere? No perché lo scempio che con ferocia ha fatto di noi è enorme da non poterlo in alcun modo assolvere, tantopiù che per placare la sua disumana anaffettività lo Stato lo ha "usato" e si è "adeguato". Tutte cose che non possono essere sanate, meno che mai attraverso il ricordo, e neppure attraverso la seduzione di una canzone come quella che Fabrizio De André gli dedicò, canzone che passa attraverso un cappotto cammello, quello stesso cappotto cammello che da Raffaele Cutolo arriva a John Gotti ma che Brioni aveva creato per Marlon Brando per “Ultimo Tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci, cappotto e memoria di cui Raffaele Cutolo si è impadronito con volgare violenza e senza merito alcuno, come ha fatto per ogni cosa. Eppure l’aspetto più inquietante di tutta la sua tragica esistenza è che ha fatto scuola. Sulla sua parabola sono state disegnate le vite degli altri criminali, a riprova che il crimine cammina di pari passo con la società, seguendone le evoluzioni in maniera frenetica e disinvolta, e se prima c'era anche nel delinquente l'accettazione della propria morte in carcere, adesso siamo arrivati al punto che un criminale malato chiede in carcere l'accesso alle cure più costose per sé, come se davvero delinquere fosse un mestiere come un altro, un mestiere di cui non vergognarsi, al punto da considerare il carcere un albergo francescano in cui andare a riposare, con serenità, quando si è messi fuori gioco. Questo perché alla narrazione del crimine nostrano è mancata la narrazione psicologica dei criminali con invece in America accade. Un esempio su tutti sono “I Soprano”, visti nel quotidiano, con tutti i limiti, anche psicologici, che una scelta di vita così estrema come quella criminale comporta, e poi in America il crimine organizzato è una lobby perché agli americani, più che agli altri popoli, interessa il business, quello che in Italia deve essere esercitato ma occultato a costo di fare saltare il sistema sociale e la struttura statale. PS: è sorprendente come Marlon Brando sia stato, attraverso la sua attività cinematografica, l'attore di riferimento di così tanti criminali, non ultimo MMD, eppure i personaggi interpretati da Marlon Brando sono dei perdenti azzoppati. lo è don Vito Corleone, così come lo è Paul di “Ultimo Tango a Parigi” e come lo è anche il colonnello Kurtz di “Apocalypse Now”.
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