IL MATTINO
Cinema
07.01.2023 - 18:58
“Tre di troppo” di Fabio De Luigi con Fabio De Luigi e Virginia Raffaele è l'unico film italiano, leggero e ben costruito, nelle sale dal 1 gennaio, sopravvissuto alla “morte” dei cine panettoni e al predominio massivo delle piattaforme internet, l'unico film italiano che riesca a incassare, e a decretare un cambiamento tra quelli che fino a ieri erano i film deputati a fare trascorrere un'ora in allegria, lontano dalle tavolate ipercaloriche delle festività, un fatto questo di volere trascorrere del tempo libero a cinema in allegria che sembra tutt'altro che defunto.
Non è un radicale cambiamento sociologico ma sicuramente “Tre di troppo" è un film che non fa sponsorizzazioni a marchi importanti, né che utilizza gli attori come maschere/contenitori dei peggiori istinti di quella classe media che in Italia da tempo non esiste più.
E questo è già un passo avanti, una considerazione fatta non per spocchia ma perché davvero è cambiato il clima in questo paese, e insistere sulla Milano, e sulla Roma da bere è assolutamente fuorviante, tanto più che gli stessi Vanzina, Carlo in modo particolare, avevano cambiato registro, e anche Neri Parenti, intervistato qualche giorno fa dal Corsera, certificava la fine di un genere cinematografico che ha contribuito a “ingrassare”, ma che non ha più voglia di frequentare, tanto più che il coattismo imperante è un fenomeno talmente esteso e capillare da non avere più senso rappresentarlo.
E poi il cinema, come luogo fisico e temporale dove perdere se stessi per un attimo o per qualche ora, è da tempo abbandonato, nessuno scalpita per sedersi nel posto migliore, e qualsiasi pellicola, anche la più pop deve essere fortunata se è seguita in sala da almeno dieci spettatori a spettacolo.
Le ragioni per cui ciò accade sono tutte sbagliate, nel senso che quando si spengono le luci e i film prendono vita per noi è talmente forte la seduzione che chiunque poi dovrebbe chiedersi perché frequenta poco il cinema, da qui la mancanza di ragioni nel pensare al cinema come un luogo da non frequentare, anche di fronte a un film che è una commedia brillante alla maniera americana, e che farebbe storcere il naso a chi a cinema chiede solo l'intelletto distillato
Come se fosse possibile.
E invece “Tre di troppo” fa ridere, in maniera intelligente, e fa riflettere , mentre mette in scena il dramma della genitorialità, e cioè di come il mondo si divida, oggi più di ieri, tra chi fa i figli e basta, e ne è posseduto, e chi crede che la coppia sia una salvifica e capiente poltrona per due, un parco giochi per adulti in cui il compagno giusto fa la differenza, e dove c'è spazio solo per la ricerca del reciproco coinvolgimento emotivo, che sia la passione del ballo, la dedizione al lavoro, e il sesso privo di pensieri altri che ne snaturino la spinta vitale e felice.
E in questo eterno dualismo, dualismo che esclude la possibilità di passare da un gruppo all'altro, che subentra il sogno/ maledizione, quello per la coppia appassionata e senza figli di ritrovarsi, di punto in bianco, catapultata nel mondo della genitorialità, a causa di una maledizione.
In pratica lo spirito del Natale sotto forma di un'enorme cicogna si impossessa della loro vita facendo approdare non uno ma ben tre figli tra le mura di casa loro, trasformando una coppia leggera e in carriera in una coppia come tante, uguale, malgrado le resistenze, a tutte quelle con i figli, quelle in perenne bilico tra una vita in pantofole, e una vita di lotta per la sopravvivenza, e per la difesa dei propri spazi vitali, tra chat scuola/ famiglia, partite di pallone, feste di bambini, ed emergenze di tutti i tipi.
Un film del genere in un paese come l'Italia, paese dove le nascite non superano le morti, è una bella sfida, perché mette l'accento sul fatto che chiunque metta al mondo un figlio è un improvvisato, un improvvisato che riesce a fare il genitore semplicemente perché si fa forza e coraggio, in quanto parte di un gruppo di genitori uguali a lui, e solo in virtù di questo riesce a recitare la parte che, suo malgrado, deve costruire per sé per continuare a esistere.
Però il film proiettando la coppia non votata alla genitorialità sul palco di una rappresentazione non richiesta mette in luce una cosa, e cioè che per dare la vita a un altro serve un atto di generosità enorme, e anche un'enorme lucidità per non fare di se stessi e dei propri figli un vuoto simulacro di conformità.
Eppure il film non dà nessuna ricetta o meglio ci dice che la ragione scevra del sentimento non è la strada migliore da percorrere quando si tratta di coppie e di figli, insomma quello che da sempre ci insegnano cinema e letteratura, e che l'unica cosa che conti, come scriveva Danilo Dolci, è sognare.
Nella vita e anche a cinema.
C'è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c'è chi si sente soddisfatto
così guidato.
C'è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c'è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.
C'è pure chi educa, senza nascondere
l'assurdo ch'è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d'essere franco all'altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.
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