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Analisi

L’era dei messaggi audio: monologo o dialogo?

L’era dei messaggi audio: monologo o dialogo?

Il futuro della comunicazione è nei giovani, dicono, ma se non insegniamo loro come comunicare, possiamo davvero affidargli il futuro della stessa comunicazione che non conoscono? Secondo le ultime statistiche, ogni giorno si scambiano oltre 7 miliardi di messaggi vocali. Si tratta di una cifra ancora relativamente bassa rispetto alla massa immensa di comunicazione che ci scambiamo ogni giorno attraverso l’ampia rosa di social che usiamo quotidianamente, eppure sta prendendo sempre più spazio, entrando nelle abitudini dai più piccini all’età adulta. Prima ancora del contenuto di quello che comunichiamo, è il tramite che scegliamo per farlo a dare la prima spolverata di senso e di significato ai nostri messaggi e alla nostra comunicazione. Ma con un messaggio audio, non stiamo parlando di comunicazione, non possiamo star parlando di comunicazione. La chiamiamo ancora “comunicazione” seppur l’abbiamo sottratta di tutto: del linguaggio del corpo, del tono della voce, dell’aspetto emotivo, della componente razionale, della cooperazione, della cortesia, addirittura dell’ascolto stesso. Ci arriva questo “messaggio AUDIO” che si può velocizzare fino a x2 per cogliere, sommariamente, quel 10% di contenuto e non dare alcuna attenzione a tutto il resto. Ignorando voce, occhi, mani, odori, emozioni, sensazioni, di chi c’è dall’altra parte. Ignorando chi c’è dall’altra parte. Ad una velocità di x2 se non leggessimo il nome, faremmo addirittura fatica a riconoscere chi c’è dall’altra parte. “Ascoltiamo” egoisticamente per noi stessi, velocemente, per sfamare il nostro eccentrico “narcisismo” di essere ricercati, di poter essere addirittura utili, e poi, se lo troviamo necessario “rispondiamo” a quel contenuto, o in alternativa rimandiamo un successivo audio con un ulteriore contenuto non inerente, se non apparentemente, a quello ricevuto. Dialogo? Lo definirei Monologo. Un aggressivo monologo in cui si sceglie di registrare la propria voce e spedirla con l’arroganza che venga ascoltata. “Un atto della vittoria dell’ego sulla socialità” in quanto non esiste messaggio più autoreferenziale di un messaggio vocale. Che pesantezza, penserete. Eppure di per sé la mia condanna non è al messaggio vocale in sé, ma all’assenza di capacità comunicativa e di dialogo. Un giovane, futuro uomo incapace di dialogare e abituato al monologo non è disposto al confronto con l’altro, all’ascolto di idee diverse dalle sue, all’accettazione e al rispetto. E tutto questo va in un’unica, sola, terribile direzione: violenza, in ogni sua forma e genere. Affidare quindi, il futuro della comunicazione, di questa “comunicazione” ai giovani, significa istigarli alla violenza, dar loro armi e presupposti per scendere in guerra. Tuttavia, ancora McLuhan già in tempi non sospetti affermava che “ogni miglioramento nelle comunicazioni aumenta le difficoltà di comprensione”. Appunto, siamo in un mondo in cui la tecnologia invece di semplificarci vita, esistenza, rapporti, ce li amplifica in problemi peggiori. E no, non è assolutamente tempo di demonizzare la tecnologia in sé, ma l’uso che se ne fa di essa, il non aver ancora capito che dall’asilo sin all’università della terza età serve un’educazione ad essa che ne indaga non solo le funzionalità ma anche i tanti, troppi, risconti emotivi.

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