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Analisi

Fotografia e psicologia: lo stretto legame tra fotografare e cura di sé

Fotografia e psicologia: lo stretto legame tra fotografare e cura di sé

Sembrerà un evento attuale, eppure stupirà scoprire che la psicologia si è interessata alla fotografia e ne ha colto le sue potenzialità terapeutiche già a partire dal 1856, quando Hugh Diamond, fotografo e psichiatra del Surrey, utilizzò le fotografie per promuovere effetti terapeutici positivi. “I pazienti ai quali venivano mostrate fotografie che li ritraevano, diventavano più consapevoli della loro identità fisica e presentavano maggiore attenzione alla loro apparenza, poiché la loro autostima era rafforzata ogni volta che vedevano una foto in cui stavano bene. Successivamente nel 1965, un gruppo di psicologi e sociologi lionesi misero a punto il metodo del “Fotolinguaggio”, costruendo una serie di dossier di fotografie in bianco e nero, su varie tematiche. Vennerò pubblicate in Francia per la loro valenza simbolica e per la capacità di stimolare l’attività immaginativa. Il “Fotolinguaggio” utilizza la fotografia soprattutto come mezzo di comunicazione e introspezione, divenendo un metodo di lavoro utile in diversi ambiti e con utenza di varia tipologia”. “Anche Carl Rogers, promotore della corrente umanistica, utilizzo le foto come stimoli terapetuci. Ancora J.L. Morendo, padre dello psicodramma, le usò come punto di partenza per le sedute di gruppo e così anche lo psicoanalista Heinz Kohut che le utilizzo nel processo di valutazione e di diagnosi e per chiarire aspetti importanti dell’infanzia del paziente”. Nel 1975, invece, Judy Weiser, psicologa e arte terapeuta, scrisse il suo primo articolo sulla “Fototerapia”, ossia sull’utilizzo della foto in terapia come mezzo di esplorazione di sé e del non verbale, soprattutto nei casi in cui appare difficile il dialogo emotivo e la comunicazione. “Non solo la psicologia si è avvalsa della fotografia terapeuticamente, ma anche i fotografi stessi. Ad esempio la fotografa inglese Jo Spence che nel suo libro del 1986 “Putting Myself in the picture: a political, personal and photographic autobiography”, racconta come sia passata da un utilizzo per fini commerciali della fotografia ad un utilizzo come strumento per fronteggiare problemi e difficoltà derivanti dalla sua malattia, un tumore al seno. Sottolinea nuovamente anche lei lo stretto legame che sussiste tra fotografia e cura di sé. Gli esempi sono innumerevoli, fino ad arrivare ai più recenti come il lavoro fotografico realizzato dal fotografo Walter Schels e dalla giornalista Beate Lokotta che hanno affrontato attraverso la fotografia il complesso tema della fine di vita. La fotografia si rivela un facilitatore della narrazione del sé e della storia del paziente, superando i limiti, le difese e resistenze e consentendo di entrare a contatto con le proprie emozioni restituendo al professionista tutto il contenuto inconscio indispensabile per comprendere le dinamiche più profonde e poter agire su di esse. Inoltre fotografando, il soggetto stimola maggiormente uno dei sensi predominanti della vita: la vista. Una vista verso l’esterno che riporta la percezione della realtà e una vista interna che permette la fuoriuscita di sensazioni, paure, stati d’animo, emozioni. Il compito principale del professionista che aiuta il suo paziente in questo percorso di esplorazione è incoraggiare il soggetto ad interagire con le sue foto passate e con le foto da lui scattate. Ciò consente un lavoro più profondo sull’inconscio, divenendo un vero e proprio esercizio di indagine delle sfere più nascoste del proprio essere e dei conseguenti comportamenti che ne derivano. Proprio per questo, gli studi di psicoanalisi definiscono la macchina fotografica come “estensione dell’apparato psichico o meglio di uno dei suoi organi percettivi fondamentali: la vista. Lo strumento-macchina, avrebbe quindi il potere di collegare chi fotografa con il mondo esterno attraverso un processo di introiezione, che potrebbe fissare un oggetto e il rapporto con quell’oggetto, prima nel mirino, in seguito nello scatto e poi, dopo lo sviluppo, su un foglio di carta o su un supporto attraverso il quale si possa avere un rapporto fisico con l’immagine prodotta”. Il soggetto per fotografare deve poter uscire fuori di sé e creare un collegamento tra il suo mondo interiore e le rappresentazioni di quest’ultimo. Inoltre egli sarà l’unico a decidere cosa immortalare della sua realtà, compiendo un atto di ri-produzione e ri-creazione”.

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