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Francesco Bardi, vita da sommelier lucano «doc» a Milano: dagli studi giuridici ai segreti del Nettare degli Dei

I consigli sul marketing per l'Aglianico del Vulture, vitigno principe della Basilicata che Bardi definisce il «Barolo del Sud».

Francesco Bardi, vita da sommelier lucano «doc» a Milano: dagli studi giuridici ai segreti del Nettare degli Dei

Francesco Bardi, sommelier

Francesco Bardi è un sommelier potentino che vive a Milano e che, nonostante i 15 anni di vita nel capoluogo lombardo, si definisce ancora un «lucano doc». Doc come i vini che maneggia con grande padronanza nello store di una storica enoteca di Milano, la Cantina di Franco, per la quale lavora.

Come è nata questa passione?

«La passione per il vino, e in generale per il mondo del food&beverage, comincia ad accendersi
dentro di me sul finire del mio percorso universitario in giurisprudenza, che quindi nulla ha che
vedere con quello che faccio oggi. Come tutte le passioni è arrivata senza che fossi io a cercarla,
ma è andata crescendo sempre più a partire da quando ho cominciato a lavorare in diversi locali per
sostenere i miei studi».

Quindi quello del sommelier non era il tuo progetto, il tuo sogno da bambino?

«No, avevo fatto una scelta ben diversa, indubbiamente dovuta al fatto di non aver ancora
scoperto questa passione e questa precisa inclinazione dentro di me. Quando allora questa
consapevolezza è diventata salda, non ho avuto scelta: cambiare percorso. Così, dopo la laurea ho
conseguito un Master in Management della Ristorazione e, successivamente, mi sono iscritto al
Corso per Sommelier presso l’Ais di Milano.


A chi vorrebbe approcciarsi a questo mondo, cosa vorresti dire? Quanta gavetta occorre fare, se c’è un percorso ben delineato e, concedimelo, quali bottiglie bisogna assolutamente stappare prima di diventare un sommelier?

«Qui devo dare una risposta un po’ più articolata: ci sono due strade. Una, quella più semplice, la
può intraprendere chiunque sia appassionato di vino e voglia conoscerlo per diletto, ma svolgendo
un altro lavoro nella vita; la seconda, sicuramente più complessa e con una gavetta più lunga, è
per chi invece come me vorrebbe trasformare questa passione nel suo lavoro, in cui la pratica è
molto più decisiva della teoria: nel concreto, è fondamentale acquisire contezza delle dinamiche
del ristorante, partendo proprio da mansioni come quella del cameriere. È solo il lavoro di sala che
permette infatti di apprendere le regole per un buon servizio, la gestione del cliente e l’intero abc
per poter un giorno diventare sommelier, svolgendo il proprio lavoro nel migliore dei modi.
Per quanto concerne le bottiglie, non ti farò i soliti grandi nomi. Quello che secondo me è
importante dire è che è di fondamentale importanza il bere tanto, nel senso del bere poco di
tutto, iniziando dai vini del nostro Paese, da sud a nord, per volgere ovviamente lo sguardo
Oltralpe, alla Francia, e pian piano a tutto il mondo».

A proposito di vini del Sud, essendoti definito un lucano doc la domanda è d’obbligo: che ne è
dei vini lucani fuori regione? Quanto sono conosciuti?

«Servirebbero dei dati alla mano per poter rispondere con accuratezza, però per la mia esperienza devo ammettere con rammarico che non è molto facile trovare vini lucani nei ristoranti, almeno a Milano. Generalmente, nelle enoteche qualcosa in più si trova, ma anche in quei casi la scelta nel concreto è molto ridotta. Dispiace davvero notare questo, specie in riferimento al vitigno principe della Basilicata – l’Aglianico del Vulture – che si è guadagnato meritatamente negli anni l’etichetta di Barolo del Sud».

E questo, dal tuo punto di vista, a cosa può essere dovuto?

«Probabilmente il problema principale è da addebitarsi ad una inadeguata strategia di marketing,
di capacità di vendersi laddove il prodotto non è ancora conosciuto come dovrebbe – non solo da
parte delle aziende vitivinicole, ma anche a livello istituzionale regionale – a fronte invece del largo
consumo e del profondo attaccamento del popolo lucano al vino della propria tradizione».

Cosa suggeriresti allora per colmare questo gap?

«Non mi reputo in diritto di consigliare nulla soprattutto a chi fa vino da decenni, però se proprio
me lo chiedi credo che occorra sempre puntare a migliorare la qualità del proprio prodotto,
partendo dalla vigna fino alle pratiche di cantina, senza aver paura di sperimentare anche cose
nuove. Ho il piacere di fare alcuni esempi a questo proposito, per quanto di solito non ami fare
nomi: Elena Fucci e il suo Titolo, Aglianico “moderno” e di grande beva; Cantina di Venosa e il loro
Matematico, un eccellente taglio bordolese “alla lucana”; Cantina Giorni, una realtà giovane che
ha deciso di puntare sul Cabernet, con il suo Sciffrà, ottenendo già ottimi risultati».

Indica ai lettori del Mattino la bottiglia più indimenticabile che tu abbia strappato...

«Domanda difficile… Su tutte, probabilmente, lo Chateauneuf du Pape di Chateau Rayas, Riserva
2007, un rosso davvero indimenticabile».

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