IL MATTINO
Salute
16.10.2020 - 10:11
Per i tumori che non rispondono alle terapie iniziali o che sono in fase di ripresa si rende spesso necessario il trapianto di cellule staminali: una procedura invasiva che prevede un lungo periodo di ricovero ospedaliero in isolamento, durante il quale vengono somministrate alte dosi di chemioterapia e/o radioterapia seguite da infusioni di cellule staminali del donatore che, in molti casi, è un genitore oppure il fratello. Le ricerche si sono interessate soprattutto sull’adattamento dei genitori a quest’esperienza ma i risultati ottenuti non ci permettono di avere un’idea chiara e coerente. In molti, infatti, sembrano prevalere invalidanti sintomi di ansia, depressione, disturbo post-traumatico da stress, pensiero ossessivo e sintomi somatici sia nel periodo precedente al trapianto sia in quello successivo ma in molti altri no. Tuttavia, un aspetto su cui gli studi sembrano concordare è che, a prescindere da tutto, la paura è il sentimento prevalente nel bambino, nei genitori, nei fratelli sani. La paura del dolore, dell’ignoto, della morte. Paura associata, poi, al senso di colpa, che sembra essere presente sia quando il proprio midollo non è compatibile (colpa per non poter salvare la vita del figlio) sia se, pure in caso di compatibilità, il trapianto non dovesse andare a buon fine. Dopo la dimissione, l’ansia, i sentimenti depressivi e i sintomi di stress post-traumatico tra cui eccitazione, ricordi ricorrenti dell’esperienza e il relativo evitamento di situazioni o luoghi associati alla malattia e, nello specifico, al trapianto, sembrano persistere nonostante ci sia un ritorno alla vita precedente senza notevoli difficoltà. Non sappiamo quanto il funzionamento familiare, la qualità delle relazioni tra i componenti influenzino l’adattamento perché le ricerche preferiscono assumere un’ottica sempre diadica. Non a caso, la relazione più indagata è quella tra madre e figlio e non solo in ambito oncologico. È da pochissimo, per esempio, che si è iniziato a parlare di depressione paterna perinatale. Il padre, nello scenario della genitorialità, è sempre stato messo in un angolo al punto che molti, negli ultimi anni, si sono chiesti dove mai fosse finito! Anche in ambito oncologico sappiamo moltissimo della madre e di come la relazione con il figlio incida sull’adattamento alla malattia di entrambi ma altrettanto poco sappiamo dei padri o, ancor meno, dei fratelli sani. La conseguenza diretta di questa prospettiva è assumere implicitamente che la madre soffra di più ma recenti ricerche hanno evidenziato un livello più alto di stress nei padri a dodici mesi dalla diagnosi, lasciando ipotizzare che non sia tanto la figura genitoriale in sé a determinare il livello di stress quanto il ruolo attivo che ciascuno svolge nel percorso di cura.
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