Cerca

Salute

Essere genitori di un bambino ammalato: cosa cambia dopo la diagnosi

«I genitori attraversano quella che Biondi, Grassi e Costantini hanno definito fase di shock, che può durare diverse settimane ed è caratterizzata soprattutto dall’incredulità, dal non credere a quanto il medico ha detto»

Essere genitori di un bambino ammalato: cosa cambia dopo la diagnosi

Comunicare deriva dal latino communis, comune. Comunicare, quindi, è inteso come mettere in comune, condividere, e non semplicemente esternare un messaggio (questo è l’atto del parlare): comunicare significa soprattutto assicurarci che il nostro interlocutore lo capisca. La condivisione di una diagnosi di cancro è un momento davvero molto delicato e difficile, non solo perché il sequestro emozionale da parte dell’amigdala non permette che vengano immagazzinate nella memoria di chi la riceve tutte le informazioni ma anche perché colui che comunica, il medico, riconosce da un lato la necessità di chiarezza e di verità, dall’altro la sensibilità delle persone che ha di fronte. Dopo aver ricevuto la diagnosi, i genitori attraversano quella che Biondi, Grassi e Costantini hanno definito fase di shock, che può durare diverse settimane ed è caratterizzata soprattutto dall’incredulità, dal non credere a quanto il medico ha detto. A quest’incredulità si associa anche un altro vissuto che colora di grigio la loro esperienza e che è legato all’idea che ciascun genitore ha di se stesso ovvero di poter tutelare la vita del figlio, di proteggerlo da ogni male. Il cancro minaccia questa rappresentazione mentale, scardina questa certezza e impone il passaggio da (semplice) genitore a genitore di un bambino con il cancro, con una malattia potenzialmente mortale. Le dottoresse Axia e Tremolada ritengono che, per comprendere meglio l’esperienza dei genitori subito dopo la diagnosi, sia necessario considerare due dimensioni che svolgono un ruolo centrale nell’adattamento alla malattia: quella dei due mondi e quella del tempo. La prima si riferisce al continuo spostamento tra casa e ospedale: l’angoscia di tornare a casa, dove più facilmente si pensa alla malattia, e il desiderio di restare con il bambino; la modifica dei ritmi lavorativi, le difficoltà economiche, uno dei due lascia il lavoro per stare a tempo pieno con il bambino, mentre l’altro rimane a casa, ad occuparsi della casa e degli altri figli, continuando a lavorare. La seconda, invece, si riferisce alle attese della sala operatoria, del trapianto, degli accertamenti; al poco tempo che hanno per parlare tra di loro, per stare con gli altri figli, con il resto della famiglia; ai minuti contati, alle corse, alla fretta. Al tempo per pensare alla malattia, dentro di sé. Concludo con queste parole di un papà, riportate nel libro “Elementi di psiconcologia pediatrica” a cura delle stesse Axia e Tremolada, che mi hanno colpito molto e che ci consegnano una fotografia precisa della loro esperienza: “[…] tenga sempre presente che, inizialmente, lei lavora come una persona che viaggia tra due mondi paralleli che non si incontrano: il mondo del malato e della malattia sta al mondo normale ed esterno come un altro mondo e lei è in mezzo tra questi due mondi paralleli…e se non ha una spalla forte, non ha qualcuno che la riesce a sostenere, per essere in grado di tenere in equilibrio questi due mondi…è facile perdersi”.

Commenta scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Il Castello Edizioni e Il Mattino di Foggia

Caratteri rimanenti: 400

edizione digitale

Sfoglia il giornale

Acquista l'edizione