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L'analisi della pedagogista

In tempo di coronavirus si sente forte il richiamo verso il proprio Paese. «Non può esser fuga dalle “guerre” attuali, ne riparo dalle paure, ma profonda consapevolezza di poter arricchire con l’esperienza ed il “mestiere”, la culla che c’ha cresciuti»

«Sarebbe, invece, incantevole poter andare per tornare, non a casa, ma in patria; indietro per andare avanti, in un ritorno che non è sconfitta ma opportunità di crescita per la propria terra»

In tempo di coronavirus si sente forte il richiamo verso il proprio Paese. «Non può esser fuga dalle “guerre” attuali, ne riparo dalle paure, ma profonda consapevolezza di poter arricchire con l’esper

C’è un tempo in cui il bisogno di andare via è più forte di quello di restare: è il tempo della gioventù in cui è necessaria la ricerca d’identità individuale e professionale. Così il viaggio verso il proprio sogno nel cassetto, verso l’opportunità giusta, verso l’offerta migliore, per i giovani, è quasi sempre un lasciarsi alle spalle la propria terra.
Il paese, apparentemente privo di benefici, viene accantonato per dar spazio all’avanguardia della grande città, al progresso, alle nuove tecnologie.
L’essere umano ha tendenzialmente in sé la smania insaziabile del voler sempre di più, del non accontentarsi mai, del desiderare di essere continuamente d’altra parte, e così anche la città a poco a poco appare insufficiente, deludente, parziale ed è una nuova corsa contro il tempo, oltre lo spazio, verso l’irraggiungibile, sfamando apparentemente l’inquietudine, senza riuscire a colmare quell’interno turbine di assenza.
“Negli ultimi dieci anni, duecentocinquantamila giovani sono andati via dall’Italia, fuga costata 16 miliardi di euro, oltre un punto percentuale Pil. Questo il valore aggiunto che potrebbero realizzare se occupati in Italia. Ad andarsene sono laureati e persone con un titolo post-laurea, giovani genitori altamente specializzati in possesso di lavoro che però, guarda caso, in Italia svolgevano un ruolo per il quale era necessario un titolo di studio inferiore a quello posseduto. E la fuga diviene conseguenza di un abisso tra livello d’istruzione e collocazione professionale; una piaga che all’estero guarisce nello spazio di pochi mesi.”
Tornare a casa sarebbe una sconfitta, così, si vive lontani, altrove, dove però si può dar forma ai propri obiettivi, la forma desiderata, quella giusta ma con il cuore diviso in due.
Il radicamento alla terra, specialmente a quella natia, costituisce il primo scenario su cui allestire la trama della propria narrazione: è un legame che appartiene a sé stessi imprescindibilmente, e fa si che un frammento della propria persona continui a vivere in quegli stessi luoghi, odori, colori, nonostante si possa essere via, lontani migliaia di miglia da essi.
Sarebbe, invece, incantevole poter andare per tornare, non a casa, ma in patria; indietro per andare avanti, in un ritorno che non è sconfitta ma opportunità di crescita per la propria terra, quella che ci ha allevati, quella che ha regalato serenità al proprio “Io bambino” e che adesso può essere ripagata con lo sguardo di un “Io adulto, uomo”.
C’è un tempo, che sia d’orologio, di eventi, di emozioni, in cui si sente forte il richiamo verso il proprio Paese, e non può esser fuga dalle “guerre” attuali, ne riparo dalle paure, ma profonda consapevolezza di poter arricchire con l’esperienza ed il “mestiere”, la culla che c’ha cresciuti: poter essere mente, occhi, mani per la terra d’appartenenza.
Esiste una felicità autentica nel rumore degli alberi delle campagne di sempre, nella pioggia che batte sulle tegole delle case, nella goccia di latte che scorre dalle mozzarelle appena fatte, nell’odore del pane caldo, nel profumo dei libri antichi delle soffitte, nei sorrisi degli anziani seduti sulle scale delle loro abitazioni a vendere verdure appena raccolte dall’orto. Questa eredità è la più grande risorsa. Ritornare non è amputazione ma accrescimento. Portare il progresso della mente nelle strade dell’infanzia è la vera libertà, quella che oggi tanto ci manca.
Italia, cara Italia, quando i tuoi polmoni riprenderanno a respirare, permettici di esserci, di tornare, di restare, di poter essere il tuo ossigeno.
“Un paese ci vuole, un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.


*Educatrice, Pedagogista, Mediatrice Familiare

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