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Gli anni di piombo: Sergio Luzzato, Anna Negri, il dolore, il furore e la guerra di memorie

Gli anni di piombo: Sergio Luzzato, Anna Negri, il dolore, il furore e la guerra di memorie

Dal 10 al 12 Novembre, è stato in programmazione, in alcune sale italiane, il film documento che Anna Negri ha dedicato alla memoria del padre, Toni Negri, che tanta parte ha avuto nelle vite di molti italiani, soprattutto di quelli che credevano nella possibilità di un mondo migliore, attraverso la lotta armata. Un rigurgito di quell’anima partigiana che portò il paese alla liberazione dal fascismo, e che grazie a Togliatti, che fece in modo di disarmarli i partigiani, impedì la guerra civile in Italia, più di quanto non avessero già fatto gli americani.
La visione del film della Negri e il la lettura del corposo libro, settecento pagine, di Sergio Luzzato storico italiano, formatosi alla Scuola Normale Superiore di Pisa, con dottorato alla Scuola Superiore di Studi Storici di San Marino, portano un po' di chiarezza sugli anni di piombo partendo da presupposti differenti ma convergenti, e cioè che serve ricomporre le memorie, perché gli anni di piombo sono ancora una guerra di memorie.
In che modo si giunge a questa ricomposizione grazie a loro?
Perché la Negri ha cercato per tutta la vita di sentirsi figlia di un uomo discusso, e attraverso la ricomposizione del suo (del loro) privato, che era pubblico, come si proclamava in quegli anni, e grazie al film c'è riuscita.
Invece Sergio Luzzato, attraverso il suo lavoro di storico e lo studio degli atti e della realtà, partendo dal pubblico per ricostruire anche il privato, è riuscito a sua volta a ricompattare le memorie, non più in guerra.
Vediamo come

Dolore e furore 

In “Dolore e furore. Una storia delle Brigate Rosse” Luzzatto combina fonti d’archivio, processi giudiziari, testimonianze orali, articoli di giornale, e tracce materiali (le case, i volantini, le lettere) per operare una ricomposizione degli anni di piombo.
La sua scrittura è letteraria ma mai romanzata, benché il taglio sia narrativo, la base su cui poggia il libro è data dalla minuziosa documentazione.
Lo storico riprende l’idea di memoria divisa e cioè di come la memoria degli accadimenti, delle varie parti in causa in quegli anni, abbia contribuito a trasformare il tutto in una vera e propria guerra di memorie, che diversi storici, tra cui Carlo Ginzburg, ritenevano fosse essere la causa principale dell'incapacità di comprendere a pieno la violenza politica degli anni Settanta.
Per questa ragione “Dolore e furore” si muove fra passato e presente, mostrando come le ferite non siano ancora chiuse.
Il libro è stato preceduto da “Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria (1998), sulla figura di Mussolini e la memoria del fascismo. Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento (2007), un’altra indagine storico-culturale.
E da altre opere che spaziano su temi “forti” del Novecento italiano.

Le due assi portanti del libro

Il documento di Luzzatto ricostruisce la storia della colonna genovese delle Brigate Rosse e, più in generale, dell’estremismo rivoluzionario di sinistra in Italia negli anni ’70, i così detti «anni di piombo».
Sceglie due assi fondamentali: un filo biografico, centrato sulla figura di Riccardo Dura, “ex marinaio” che diventa brigatista di rilievo nella colonna genovese, e il cui percorso serve da “motore” narrativo, e la prospettiva “corale”, che inserisce la Genova degli anni Sessanta/Settanta come “laboratorio” dell’eversione armata.


Struttura e contenuti principali

Luzzatto parte dagli anni Sessanta, ben prima che le Brigate Rosse emergessero con forza, per spiegarne i presupposti.
L’analisi non è solo militante/operativa, egli indaga il nesso tra classe operaia, intellettuali, immigrazione, periferie industriali, e come questi fattori abbiano contribuito al processo di radicalizzazione. Fa emergere la centralità di Genova, città “laboratorio”, nell’interpretazione complessiva del fenomeno brigatista.
Il finale del libro tratta la crisi del movimento, la sconfitta della colonna genovese (via Fracchia, 28 marzo 1980) e le ragioni della sua caduta.
Egli mette in evidenza che il terrorismo rosso non è stato semplicemente “il prodotto” di pochi gruppi armati isolati, ma è emerso in un contesto più ampio: culturale, politico, sociale, e che Genova è simbolica di questo intreccio.
Pur riconoscendo la dimensione armata e criminale delle Brigate Rosse, Luzzatto non riduce la loro genesi a meri “mafiosi della politica” o a “strumenti dello Stato”, ma privilegia una lettura complessa.
La sua attenzione è rivolta anche ai “maestri”, professori, intellettuali, e al ruolo che possono aver avuto nel movimento rivoluzionario, pur evitando una tesi determinista.

I cinque punti nodali 

Genova come laboratorio storico 
Luzzatto non sceglie Genova a caso.
Negli anni Sessanta e Settanta, la città era un crocevia unico in Italia. Porto industriale e marittimo, ma anche città universitaria e intellettuale. Centro del lavoro operaio pesante per la presenza dell' Ansaldo, dell'Italsider, del porto, e contemporaneamente luogo di forte presenza cattolica e sindacale. Città “in salita”, letteralmente e socialmente divisa tra centro borghese e periferie operaie (Rivarolo, Cornigliano, Sestri Ponente).
Luzzatto vede in Genova una micro-Italia, un luogo dove le tensioni del miracolo economico si trasformano presto in conflitto sociale.
È qui che la rabbia di una nuova generazione trova spazio per articolarsi, tra lotte sindacali radicali e crisi delle mediazioni tradizionali quali partiti, sindacati, Chiesa.
La città stessa, con la sua geografia “compatta e verticale”, diventa, per usare una sua immagine, un terreno adatto alla clandestinità, un “labirinto urbano” dove le Brigate Rosse potevano nascondersi, ma anche un crogiolo simbolico della trasformazione dell’Italia operaia in Italia armata.

La fabbrica: la nuova frontiera del conflitto

Per Luzzatto, la fabbrica è il punto di fusione tra condizione materiale e ideologia. Negli anni ’60, la fabbrica genovese rappresentava il luogo per eccellenza dell’alienazione e dello scontro.
Le lotte operaie, inizialmente legate al miglioramento salariale, assumono gradualmente una valenza politica rivoluzionaria. L'operaio non chiede più solo “più salario”, ma il potere.
Genova diventa una delle capitali dell’“autunno caldo” del 1969.
In fabbrica si sviluppano nuove forme di partecipazione e conflitto: i comitati unitari di base, i coordinamenti spontanei, le occupazioni.
È proprio in questa trasformazione del conflitto industriale in lotta ideologica che, per Luzzatto, si insinua il germe della lotta armata.
Luzzatto mostra come la fabbrica diventi una palestra di radicalizzazione. Gli operai vivono la durezza del lavoro e l’ingiustizia sociale come una violenza sistemica. I giovani intellettuali vedono nella fabbrica un laboratorio di rivoluzione. “L'operaio di linea” e “il marinaio politicizzato” (come Riccardo Dura) si incontrano in una visione comune: la violenza del capitale va spezzata con una violenza di segno opposto.

L’immigrazione interna: identità e marginalità

È questo un punto molto interessante e spesso trascurato nella storiografia.
Genova, negli anni ’60-’70, era una città di forte immigrazione dal Sud, soprattutto dalla Sicilia e dalla Calabria.
Luzzatto sottolinea che molti dei protagonisti della colonna genovese delle BR erano figli o nipoti dell’immigrazione interna.
Essi vivevano una doppia alienazione. Sul lavoro, come “nuovi arrivati” nelle grandi industrie del Nord. Nella città, come cittadini di seconda categoria, abitanti di periferie degradate o quartieri operai isolati.
Questa marginalità sociale si traduce spesso in un sentimento di ingiustizia radicale, che può diventare rabbia politica.
Il brigatista genovese non è quasi mai un “figlio della borghesia” come a Milano o a Torino. È più spesso un proletario o un tecnico, un giovane proveniente da un contesto precario e deprivato.
Luzzatto collega questa esperienza di sradicamento al bisogno di appartenenza. La clandestinità offre una “nuova famiglia”, una comunità di senso.

Gli intellettuali e i “maestri”

Uno dei passaggi più discussi e originali del libro è l’analisi del rapporto tra gli intellettuali e i futuri terroristi.
Genova, oltre che città industriale, è anche un centro universitario di grande fermento: docenti di filosofia e storia, giornalisti e scrittori militanti, parroci “del dissenso” e figure del cattolicesimo progressista.
Luzzatto non sostiene una tesi di “responsabilità diretta” dei maestri nel terrorismo, ma osserva un fenomeno più sottile. Gli intellettuali hanno spesso fornito ai giovani militanti un linguaggio morale e simbolico in cui la violenza sembrava avere una legittimità etica.
Le letture di Marx, Fanon, Sartre, Guevara, la teologia della liberazione, circolano non come teoria, ma come grammatica morale del riscatto.
La cultura alta, in qualche modo, si intreccia con la rabbia operaia e proletaria, e contribuisce a dare forma e senso alla scelta armata.
È qui che Luzzatto individua un punto di rottura generazionale. Gli intellettuali più anziani, formatisi nella Resistenza o nel dopoguerra, credono nella politica come mediazione, i giovani, invece, ne vedono solo il fallimento.

Generazioni e violenza politica

La violenza, per Luzzatto, non è soltanto uno strumento politico, ma una forma generazionale di linguaggio.
I nati nel dopoguerra, la generazione del benessere e della scuola di massa, crescono in un contesto di aspettative alte e di disillusione rapida.
Nel libro, la contrapposizione generazionale è fortissima.
I genitori, legati all’ordine e alla disciplina del dopoguerra, i figli, che vivono l’ingiustizia del capitalismo e la vedono come tradimento della promessa democratica.
La violenza, allora, nasce come atto di purezza, una forma di testimonianza radicale in un mondo giudicato ipocrita.
Luzzatto lo definisce “dolore e furore”. Dolore per l’ingiustizia e la repressione, furore come risposta purificatrice e autodistruttiva.
Il risultato è una generazione che confonde la rivoluzione con la catarsi morale, e la lotta armata con la ricerca di un’identità.
Sergio Luzzatto, con “Dolore e furore”, offre una storiografia “umana” del terrorismo.
Non si concentra sulla strategia o sulla geopolitica, ma sui corpi, le città, le parole, i sentimenti.
È una storia di come la rabbia sociale si trasforma in religione secolare della purezza.
Rispetto ai suoi colleghi, Luzzatto restituisce la densità morale e culturale di un’epoca, evitando sia la condanna morale astratta, sia l’assoluzione ideologica.
Il suo merito è mostrare come il terrorismo non venga dal di fuori della società italiana, ma dal suo stesso cuore, dal fallimento delle sue promesse democratiche.

Toni, mio padre

Il documentario, presentato alle Giornate degli Autori - Notti Veneziane (sezione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2025) racconta il rapporto tra Anna Negri e suo padre Toni.
La Negri aveva 14 anni quando il padre fu arrestato con l’accusa, poi prosciolta, di essere il “capo occulto del terrorismo italiano”.
Il film è girato tra Venezia, la Sardegna e Parigi.
Padre e figlia si ritrovano a Venezia, luogo delle loro radici familiari, in un momento in cui il padre è consapevole che il tempo per entrambi è limitato, morirà sei mesi dopo le riprese.
Il film mescola l’archivio familiare attraverso: Super 8, fotografie, interviste, materiale televisivo, con la memoria collettiva.
Il tema centrale è quello delle ferite di due generazioni.
Da una parte il genitore ingombrante, sempre assente, per via dell’impegno politico, tanto da trasformare la sua, la loro storia personale in storia pubblica. Dall'altra una figlia cresciuta con il "rigetto" del cognome e degli anni di piombo
Il rapporto padre-figlia fatto di distanza, di silenzio, di attese, di elaborazione di un legame mai completamente vissuto è il perno su cui ruota l’intera documento, con la consapevolezza che «prima o poi» il dialogo va aperto o rischia di restare incompiuto.
Perché serviva (serve) vederlo?
Perchè offre uno sguardo raro su una figura controversa della storia italiana, dal punto di vista della figlia, tanto da fare convergere il foro interno con quello esterno.
L’uso di materiale d’archivio, misto a immagini contemporanee e private, dà al film un tono ibrido tra documentario, autobiografia e confessione, mentre affronta temi universali quali: la mancanza, la ricerca, la riconciliazione, in un contesto molto specifico.
«Le cose che più mi mancano di mio padre sono la sua ironia e la sua capacità di analisi del mondo. … Mi manca il suo idealismo e in un mondo che si fa sempre più buio è bello pensare che c’erano persone fatte così»
Essendo fortemente personale, può risultare meno “oggettivo” rispetto a un documentario totalmente esterno, visto che la regista è “la protagonista”.
Il film mette in luce quello che è il centro del libro di Sergio Luzzatto e cioè che gli anni di piombo sono ancora una guerra di memorie, dove Anna Negri cerca di ricucire questo gap attraverso e grazie al padre.
Aveva già iniziato a farlo nel 2009 con il libro “Con un piede impigliato nella storia” edito da Feltrinelli e ripubblicato da Derive Approdi, perché per lei il peso del suo cognome era diventato insostenibile. Allo stesso modo lo era il fatto di avere avuto come genitori due rivoluzionari. Tanto che il padre glielo dice, ma le chiede anche che se pure da parte loro c’era stato un errore, in che modo, poi a conti fatti, lei risolveva i problemi del quotidiano di cui si lamentava, imputandoli anche a loro e agli anni di piombo?
Il merito più grande di questo film è proprio quello di avere fatto convergere le due memorie distanti dei due protagonisti, quella del padre protesa verso la rivoluzione e quella della figlia protesa verso il riconoscimento del padre, al netto della rivoluzione e di tutte le conflittualità pubbliche e private, restituendo umanità al padre, e quindi restituendo a noi una memoria dell'uomo meno incrostata e violenta, come lo sono stati quegli anni.

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