IL MATTINO
Analisi
29.11.2025 - 15:50
Arrivati a sessanta anni, se non si è vissuto inutilmente, qualcosa sulla morte, tutta, serve averlo imparato, per evitare di ritrovarsi come un topo in una scatola, tra farmaci, cibo e affetti scaduti, meno caldi di una coperta in pile.
Ho iniziato presto a guardarla in faccia la morte, attraverso quella di mio nonno, il padre di mia madre, nella cui famiglia vivevo. Ero ancora una bambina e allora pensavo che morire fosse un momento social, portava "quasi" allegria, insieme all'odore del caffè, della cioccolata calda e delle persone che arrivavano con le loro storie personali sul defunto.
Poi c'è stata una tregua, ma allo scoccare del diciottesimo anno di età mi sono ritrovata a fare “l'ufficio stampa” della morte di mio zio Isaia, storico sindaco di Eboli e fratello maggiore di mia madre, a cui è dedicata l'aula consiliare del Comune, e lì il passaggio è stato violento ma non perfettamente rielaborato.
Con la morte di mia nonna sono finiti gli abbracci, e pure la capacità di riuscire ad amarmi e a farmi amare in profondità, ma pure la consapevolezza che il dolore era un fatto privato da custodire, come mi disse zio Mario, il fratello più piccolo di mia madre, in quella circostanza, e che è morto il 27 novembre 2025.
La morte di mio padre è stata il vero spartiacque, quella che mi ha fatto sommare tutte le morti precedenti e successive, compresa quella di altri zii amatissimi e di mia madre.
Mio padre, la morte, me l'ha fatta guardare attraverso i suoi occhi, e in presa diretta, perché i suoi occhi erano i miei.
Dopo è tutto cambiato, io sono cambiata e quello che ho imparato è che chi muore ci libera da ogni peso, ci dà la possibilità di parlarci e di parlare con chi ci è più prossimo con maggiore consapevolezza e pure con maggiore tenerezza, per potere aprire e chiudere il cerchio della vita e per arrivare alla nostra di morte vivi e nudi, al cospetto dell'energia cosmica nella quale tutti andremo a convergere.
La morte e i filosofi
La morte, dal punto di vista filosofico, è stata interpretata in modi profondamente diversi a seconda delle epoche, delle scuole di pensiero e della visione dell’essere umano. La percezione della morte, a chi è vivo è data solo la percezione, che è proporzionale alla profondità umana di ogni singolo coinvolto emotivamente, è mutevole. Se così non fosse la morte, a cui la natura e la cultura ci educano ogni giorno, sarebbe un terreno ancora più scivoloso e complesso su cui gli umani debbono necessariamente confrontarsi. Dobbiamo vivere cercando di dimenticare il dolore che la nostra morte ci procurerà, per quella ferita narcisistica che ci è data in dote nascendo, e che vivendo dovremmo sanare.
Platone e gli antichi : la morte come liberazione o trasformazione
Per Platone, l’anima è immortale, il corpo è la sua prigione. La filosofia, e quindi il modo di affrontare la vita, è preparazione alla morte (meletē thanatou), perché abitua l’anima a separarsi dal corporeo.
La morte è un passaggio e cioè il ritorno dell’anima al mondo delle idee.
Gli stoici al contrario la consideravano naturale, si, ma indifferente.
«Non è la morte a essere terribile, ma il giudizio che ne diamo» (Epitteto).
Epicuro: la morte come nulla
Epicuro la interpreta in modo radicalmente liberatorio rispetto ai filosofi a lui precedenti, in maniera logica, consequenziale, al punto di abbattere il muro della diffidenza e della paura che la morte porta con sé e infatti diceva:
«Quando ci siamo noi, la morte non c’è; quando c’è la morte, non ci siamo più noi.»
Per lui temere la morte è irrazionale, visto che mai la sperimenteremo la morte, esisterà solo quando non esisterà più la nostra coscienza.
Martin Heidegger: la morte come limite e condizione dell'esistenza
Per Martin Heidegger, la morte non è semplicemente un evento biologico, ma la struttura stessa della nostra esistenza. L’essere umano è un “essere-per-la-morte” (Sein-zum-Tode). La consapevolezza di essere finiti dà senso e autenticità alla vita.
Solo affrontando la propria finitezza si può vivere in modo autentico, libero dalle distrazioni e dalle aspettative del “si” che è il simbolo della società anonima.
L'Esistenzialismo: la morte come scandalo e mistero
Sia per Sartre sia per Camus, la morte è assurda perché non ha un senso intrinseco.
Solo che se Jean-Paul Sartre si ferma davanti alla morte e alla sua nullità, Albert Camus nota che la finitezza ci obbliga a costruire un significato personale nell’assurdità del mondo, e qui c’è un passaggio importante e cioè la rivendicazione della necessità di vivere in maniera consapevole per ognuno, per dare alla morte la sua straordinaria e ordinaria collocazione.
Emmanuel Lévinas: la morte come relazione e responsabilità
Lévinas amplia ulteriormente il passaggio di Camus. Lui vede la morte non solo come evento personale, ma anche come qualcosa che incontriamo attraverso la vulnerabilità dell’altro. E grazie alla morte dell’altro che in noi affiorano la responsabilità, la cura e il senso etico.
Michel Foucault: la morte come costruzione culturale
Michel Foucault, che è il padre dell’antropologia filosofica, considera la morte non solo come fatto biologico, ma anche come prodotto culturale. I social lo dimostrano ampiamente, tanto da essere invalso l'uso di celebrare le morti di chiunque dentro lo spazio social, al punto di fare diventare vana la celebrazione della morte, di chiunque, in luoghi differenti da questi. Nel mentre nella realtà si stanno diffondendo le case del commiato, dove fare stazionare le salme fino alla tumulazione, e dove chi ha piacere di ricordare il defunto può recarsi.
Insomma ogni società plasma il modo in cui viene vissuta, rappresentata e regolata.
Quasi tutte le tradizioni convergono su un punto e cioè che la morte non è solo la fine della vita, ma ciò che dà alla vita forma, urgenza e valore.
È lo specchio attraverso cui comprendiamo chi siamo, cosa conta per noi e come vogliamo vivere.
Epilogo
Per quanto mi riguarda, e per quanto ci riguarda, in quanto nucleo familiare, questa morte, che ci tocca da vicino in questo momento, è vissuta in maniera laica, per come è sempre stata improntata la vita di mio zio, che tra le mani stringe il suo gionale preferito, acquistato dalla prima pubblicazione: "La Repubblica". Nessuna sovraesposizione pubblica, nessuno scambio di convenevoli, nessun manifesto commemorativo, se non questo breve testo e questo frammento da "Elegie Romane" di Josif Brodskij, scritte per Benedetta Craveri, che usai per la morte di mia nonna, e quindi di sua madre per ricordarla insieme a tutti gli altri nipoti, e che era nel mio cuore ma che era piaciuto moltissimo anche a lui, insieme a una festa alla vita in suo ricordo.
Chinati, ti devo sussurrare (grassetto)
Chinati, ti devo sussurrare all’orecchio qualcosa:
per tutto io sono grato, per un osso
di pollo come per lo stridio delle forbici che già un vuoto
ritagliano per me, perché quel vuoto è Tuo.
Non importa se è nero. E non importa
se in esso non c’è mano, e non c’è viso, né il suo ovale.
La cosa quanto più è invisibile, tanto più è certo
che sulla terra è esistita una volta,
e quindi tanto più essa è dovunque.
Sei stato il primo a cui è accaduto, vero?
E può tenersi a un chiodo solamente
ciò che in due parti uguali non si può dividere.
Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come
può soltanto sognare un frammento! Una dracma
d’oro è rimasta sopra la mia retina.
Basta per tutta la lunghezza della tenebra.
(da “Poesie italiane”, trad. it. di Giovanni Buttafava e Serena Vitale, 1996)
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