IL MATTINO
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25.11.2025 - 15:42
Due note. Bastano due sole note e gli occhi di chi ama il calcio si riempiono di nostalgia. Ogni volta che nelle casse di uno stadio inizia a suonare Live is Life, tutto torna a quel pomeriggio del 19 aprile 1989 all’Olympiastadion di Monaco di Baviera. Bayern contro Napoli, semifinale di ritorno di Coppa Uefa. Gli azzurri hanno vinto 2-0 all’andata. Quel giorno il Napoli pareggia 2-2 e conquista la prima finale europea della sua storia, che poi vincerà contro lo Stoccarda. Ma nessuno ricorda la cronaca, i marcatori, le statistiche. Quel pomeriggio a entrare nel mito non è la partita, ma lui. Diego Armando Maradona. La maglia azzurra, i ricci che ondeggiano leggeri, gli scarpini slacciati. E quella danza. Perché non è un riscaldamento, è arte pura, improvvisata sulle note di una canzone austriaca diventata per sempre napoletana. Mentre lo stadio trattiene il fiato, Diego gioca con il pallone: lo accarezza, lo ferma, lo lascia andare. Non è un riscaldamento, è calcio che si fa musica, corpo e poesia.
In questa immagine, sono racchiuse le ragioni per cui la figura di Maradona è entrata per sempre nell’immaginario collettivo instaurando con ogni tifoso un rapporto intimo, quasi carnale: è al contempo uomo e calciatore, rito e gioco, inarrivabile e a portata di tutti. Quel pomeriggio del 1989, la cornice europea è prestigiosa e incute timore, ma lui la attraversa smorzando la tensione e facendola sciogliere in una danza leggera, ritmata, sorridente. Ed è quello che farà durante tutta la sua carriera. Pasolini scrisse che il calcio è l’ultima rappresentazione del sacro che è rimasta. Ed è così: ad ogni partita si celebra il rito del calcio, in campo scendono gli officianti con le loro divise e sugli spalti i fedeli assistono ad una liturgia di cui conoscono ogni parola, fraseggio, eccezione, aspettando che si materializzi il sacro. La vita ordinaria rimane sospesa per 90 minuti e la comunità di credenti attende il miracolo della vittoria o l’abisso della sconfitta. Maradona ha rafforzato quel rito, è stato il sacro che si materializza. Ma proprio mentre sale sull’altare e pone tra sé e il resto del mondo una distanza impossibile da colmare, annulla quella distanza e trasforma il rito in gioco, il sacro in profano, diventa un bambino che si diverte con il pallone, il calciatore della gente, tra la gente.
Si muove per tutta la vita tra due poli opposti. È la “mano de Dios” nei quarti di finale del mondiale contro l’Inghilterra, ma anche le scarpette sporche di terra nell’amichevole giocata ad Acerra nel 1985, su un campo malmesso di provincia, per raccogliere fondi per un’operazione ad un bambino del posto. Cielo e fango. È il principale artefice della vittoria dell’Argentina in Messico ’86, ma anche il ragazzo che a pochi minuti dal trionfo chiama Doña Tota,la madre, per dirle “Io gioco per voi, mamma” con una tenerezza che fa a pezzi l’aura di invincibilità che lo circonda. Campione e figlio. È il re di Napoli, accolto da 70.000 tifosi in festa nella sua presentazione ufficiale al San Paolo nel luglio dell’84, ma non rivendica mai alcun privilegio per quella corona: finisce sempre per ultimo gli allenamenti insieme al portiere Pino Taglialatela, al quale una sera, dopo essersi esercitati ai rigori, chiede quanto guadagnasse al mese e, sentendo la cifra, da lui giudicata troppo bassa, si indigna, si attacca al telefono, chiama Luciano Moggi e ottiene per il compagno di squadra il raddoppio dello stipendio. Calciatore e amico.
È una luce che per splendere si alimenta anche di ombra: quella della cocaina, delle frequentazioni discutibili, dei problemi col fisco, dei figli non subito riconosciuti. E quell’ombra non l’ha mai rinnegata, ma attraversata. Anche il giorno del suo addio al calcio, il 10 novembre 2001, in una Bombonera gremita: non si abbandona all’autocompiacimento o alla tentazione della gloria che gli viene tributata, ma al centro del campo, di fronte a 50.000 persone, rivendica di aver pagato tutte le proprie colpe e difende il suo sport, che non deve essere macchiato dalle debolezze di un giocatore. “La pelota no se mancha”.
Maradona è il Dio del calcio dal volto umano: trionfa, cade, si rialza, si sporca, splende. Per questo ci riconosciamo in lui, tutti. Le sue contraddizioni, le sue fragilità, sono anche le nostre. Per questo è possibile parlare di lui usando solo il tempo presente.
Per questo ancora oggi, a distanza di decenni, quel pezzo degli Opus che suona nelle casse di uno stadio riempie gli occhi di chi ama il calcio di nostalgia: c’è un ragazzo di cielo e fango che sta palleggiando.
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