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La Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne

Il 25 novembre è il conto delle ferite

Dai femminicidi ai suicidi indotti, dal Muro delle Bambole a Milano al centro antiviolenza dedicato a Elisa Claps: numeri, storie e luoghi che ricordano quanto la violenza di genere continui a diffondersi

Il 25 novembre è il conto delle ferite

Il 25 novembre non corrisponde all’inizio del coutdown dell’ultimo mese che ci separa dal Natale ma indica una ricorrenza a cui, soprattutto noi donne, dovremmo tenere particolarmente: la “Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne”. E’ stata istituita dall'Onu nel 1999 in ricordo delle tre sorelle Mirabal, deportate, violentate e uccise il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana perché considerate rivoluzionarie. In questi 26 anni il progresso tecnologico ha accelerato mentre quello umano sembra aver rallentato. La società si è evoluta ma non sempre in direzione positiva. Considerate più deboli e vulnerabili, le donne continuano ad essere bersaglio di aggressioni e soprusi di qualsiasi natura. Alla luce di queste premesse, non stupiscono i dati condivisi dall’osservatorio del movimento “Non Una Di Meno” che, nel 2025, registrano: 77 femminicidi; 3 suicidi indotti di donne; 2 suicidi indotti di due ragazzi trans; 1 suicidio indotto di una persona non binaria; 1 suicidio indotto di un ragazzo; 7 casi in fase di accertamento. Per un totale di 91 morti. Si specifica sul sito “inoltre, ci sono almeno altri 68 tentati femminicidi riportati nelle cronache online di media nazionali e locali e almeno due figlicidi, di due ragazzi uccisi dal padre.”
Viviamo in un Paese in cui la parola “famiglia” è celebrata ogni giorno eppure è proprio nelle case, dietro porte chiuse e finestre illuminate, che si consuma la maggior parte delle violenze, in primis per mano di partner incapaci di gestire un rifiuto o un cambiamento. Probabilmente perché nessuno viene educato alla “sconfitta” in una società che richiede sempre l’invincibilità? Forse i carnefici sono stati a loro volta vittime o spettatori di violenze che li hanno portati a ritenere quel tipo di comportamento come normale nelle dinamiche di coppia? E’ chiaro che il fine di queste domande non è quello di giustificare. Credo però che capire le cause, aiuti ad identificare la cura perché siamo di fronte ad un problema sempre più endemico e verso cui ci siamo ormai assuefatti. Ci stiamo abituando ad assistere all’ esibizione di ogni forma di violenza come segno di potere, contenuto da mostrare, condividere e persino monetizzare. Mi chiedo allora, a quale livello bisognerebbe agire. Aiutare le famiglie fornendo loro nuovi strumenti come il supporto psicologico? Potenziare le scuole cominciando dalla ri-legittimazione del ruolo dell’insegnante e proseguendo con l’introduzione dell’educazione sessuale ed affettiva? La tematica è troppo complessa per pensare di poterla risolvere in poche righe. Va affrontata con professionalità specifiche, collaborazione da parte degli uomini ed un interesse generale che vada oltre l’indignazione e l’hashtag del momento. Come diceva in uno dei suoi brani più recenti, una grande donna che abbiamo salutato in questi giorni “bisogna imparare ad amarsi in questa vita, bisogna imparare a lasciarsi quando è finita”. Naturalmente parlo di Ornella Vanoni, un’artista immensa che nell’immaginario collettivo è simbolo ed icona di Milano. E’ proprio in una delle zone più conosciute del capoluogo lombardo, le colonne di san Lorenzo, che nel 2014 è stato inaugurato il “Muro delle Bambole (Wall of dolls) un'installazione artistica che è simbolo permanente di denuncia contro la violenza di genere. L'idea riprende un’antica tradizione indiana per cui ogni volta che una donna subisce violenza, una bambola viene affissa sulla porta della sua casa. A Milano, la bambola viene affissa sull’installazione di via de Amicis, creando così un "muro" di memoria e consapevolezza. Ci tenevo a condividerlo perché tematiche come quella della violenza, sono universali in quanto purtroppo si consumano sia in un una metropoli sia in realtà più piccole come quelle che compongono la nostra regione. Sono passati 33 anni da quel settembre 1993 in cui una giovane ragazza potentina, Elisa Claps, veniva uccisa dalla mano di un folle che ha potuto contare per 17 anni sulla complicità e l’omertà di chi ha macchiato in modo vergognoso l’abito e l’istituzione che rappresentava. Negli anni Elisa è diventata un simbolo, grazie soprattutto alla resilienza della famiglia e al forte senso di legalità manifestato anche attraverso la vicinanza all’associazione “Libera” di don Luigi Ciotti. Lo scorso 17 novembre a lei è stato dedicato il centro antiviolenza inaugurato a Palazzo San Gervasio. Come mi racconta Maurizia Buonvino, assessore alle “politiche sociali, giovanili e immigrazione”, Elisa è il nome che ha unito il binario della violenza di genere con quello della legalità perché la struttura presso cui ha sede l’associazione, è un bene confiscato alla criminalità organizzata locale. Il centro sarà gestito dall’associazione “Differenza Donna”, attiva a livello nazionale, con cui l’amministrazione di Palazzo San Gervasio ha sottoscritto una partnership attraverso il progetto GEA (General Empowerment e reti Antiviolenza). La struttura è dotata di 7 posti letto ed opererà sia sul fronte della prevenzione e denuncia che su quello dell’accoglienza di donne costrette a vivere sotto protezione. Alla realizzazione del progetto hanno contribuito “Casa Natural” mediante il progetto “Attive” finalizzato all’inserimento delle donne nel mercato del lavoro ed “Enel Cuore” che ha integrato il finanziamento concesso dal Ministero degli Interni.

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