IL MATTINO
terremoto irpinia e basilicata del 1980
23.11.2025 - 17:01
Don Tommaso Latronico Servo di Dio
La sera del 23 novembre 1980, nel Potentino, in Irpinia e in parte della provincia di Foggia la normalità si trasformò in paura, polvere e macerie. Un sussulto improvviso squarciò una normale domenica sera, come se il mondo cadesse in ginocchio e un’intera popolazione scoprì la fragilità del proprio territorio. Per molti, come accadde a Nova Siri, la scossa fu un brivido lieve, quasi ingannevole. Nessuno poteva immaginare che, poche ore dopo, l’Italia intera si sarebbe svegliata con il cuore del Mezzogiorno ferito, devastato, impreparato e in parte ancora incredulo di quanta energia distruttrice si fosse abbattuta.
A Matera, don Tommaso Latronico, Servo di Dio, aveva avvertito la scossa con più forza. Ma anche lui, come tutti, solo il lunedì comprese la gravità della situazione: paesi crollati, famiglie senza un tetto, vite sospese nel freddo tagliente di fine novembre. Non attese un momento. Era fatto così: un sacerdote che non misurava le distanze, ma le necessità; che non contava i mezzi, ma le persone.
A Milano, don Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, immaginò immediatamente dalle parole di Don Tommaso quanto la situazione fosse emergenziale. Richiamò la squadra di primo soccorso costituita ad hoc dopo la tragica esperienza del terremoto in Friuli nel 1976 sollecitandone la partenza verso il Sud per aiutare una popolazione già stremata, chiedendo a don Tommaso di fare da ponte, da guida e da fratello.
Martedì mattina a Potenza i vescovi lucani erano riuniti e preoccupati per i ritardi della macchina dei soccorsi e per l'imminente visita annunciata da Papa Giovanni Paolo II nelle zone colpite dal sisma. Dopo un consulto con Don Tommaso e la sua delegazione fu chiesto alla squadra di Comunione e Liberazione di raggiungere Castelgrande, territorio inizialmente sul percorso del Papa, che poi fu modificato per questioni di sicurezza.
In tarda mattinata uomini e donne di Comunione e Liberazione, 5-6 persone a bordo di due auto arrivarono a Castelgrande. Trovarono strade distrutte, pareti sbrecciate, sguardi impauriti. Non avevano quasi nulla: qualche attrezzo e una tenda canadese. Eppure, bastò un niente per cominciare: qualche branda, un capannone di lamiera ancora in costruzione, la Santa Messa celebrata su un tavolo improvvisato. In quelle giornate la presenza del Movimento divenne un abbraccio concreto e continuò per tutto l'inverno. Don Giussani chiese agli studenti universitari di Cielle di organizzare dei turni di permanenza a Castelgrande, il primo gruppo arrivò da Torino con don Primo Soldi, poi giunsero gli studenti di Bologna. Non solo soccorso, ma compagnia: mani che rassettavano tende, occhi che si fermavano su chi tremava, parole che riconsegnavano dignità. C’erano anche i medici. Uno di loro, il dottor Enzo Piccinini, con la sua calma e la voce dolce, medicò ferite e paure. Per molti, come Elisa, che lo ricorda in questo racconto con gli occhi lucidi, fu un angelo in camice, capace di fasciare una mano e un cuore nello stesso gesto.
E poi c’era don Tommaso. Sempre presente, instancabile, coraggioso. Metteva insieme gruppi di persone, rispondeva ai bisogni più immediati, accompagnava fisicamente e nella preghiera. Per chi era troppo fragile per restare a Castelgrande - anziani, bambini, malati - trovò accoglienza a Nova Siri, dove la comunità di Comunione e Liberazione - con l'ospitalità tipica del popolo lucano - si organizzò con ogni mezzo, finanche con la disponibilità delle case al mare non abitate durante i mesi invernali.
Nessuno faceva calcoli. Nessuno chiedeva perché. Si stava lì per il bisogno di esserci. L’inverno fu duro. Le scosse continuarono, la vita sembrava sospesa. Eppure, dentro tende umide e baracche improvvisate, accadeva qualcosa che nessun terremoto può distruggere: la nascita di una comunità nuova. Il dolore non veniva negato, ma condiviso. La paura non veniva scacciata, ma illuminata. Dietro ogni gesto, dietro ogni notte passata in auto a dormire, dietro ogni sedia sistemata per la Messa o ogni pezzo di pane diviso, c’era un’unica certezza: nessuno si salva da solo.
E così, nella tragedia più immane mai vissuta dal Meridione nel dopoguerra, in quell'inverno freddo e spietato, la Basilicata scoprì di essere guardata dalla Provvidenza attraverso uomini e donne che, senza clamore, scelsero di rimanere accanto a chi soffriva. Tra loro, in prima linea, c’era don Tommaso, Servo di Dio, e la grande, ostinata e tenera famiglia di Comunione e Liberazione.
edizione digitale
Il Mattino di foggia