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23.11.2025 - 11:11
Una tragedia dalle dimensioni enormi che provocò quasi 3.000 vittime, più di ottomila feriti e lasciò 300.000 persone senza un tetto. Sono trascorsi 45 anni dal 23 novembre del 1980, ma il terremoto di magnitudo 6.9 (decimo grado della scala Mercalli all'epicentro) che alle 19.34 di quella domenica sera devastò la Basilicata e la Campania non sarà mai una pagina da archiviare. Quel dramma immane fu accompagnato da notevoli ritardi nei soccorsi, nonostante la mobilitazione dell'intero Paese per le zone terremotate, come peraltro sottolineato dall'allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini. E fu proprio il terremoto in Irpinia e Basilicata a rappresentare un punto di svolta nella gestione delle emergenze: due anni dopo, il 29 aprile 1982, l'allora presidente del Consiglio dei Ministri, Giovanni Spadolini, firmò l'Ordine di servizio con il quale fu formalmente istituito il Dipartimento della Protezione Civile
“Bucaletto è sempre esistita come contrada. Dopo il terremoto è diventato il quartiere di periferia che tutti conoscono”. Si ferma mentre lo dice, poi si guarda intorno, guarda me negli occhi e aggiunge “Però hai visto quanto è bella?” e riprendiamo a camminare. Saverio Salvato è un levigatore e lucidatore del marmo, un artigiano; lo incontro al bar, l’unico di Bucaletto, che lui e la moglie hanno preso in gestione. Beviamo insieme un caffè, usciamo fuori a fumare e ci assolviamo a vicenda per il nostro vizio, mi chiede se abbia voglia di passeggiare e inizia il suo racconto.
La realtà di Bucaletto è figlia del sisma di quarantacinque anni fa e per capirla fino in fondo non bastano le cronache dell’epoca né le centinaia di pagine di bozze di progetti di riqualificazione che negli anni sono state scritte, e che qualche ora più tardi mi verranno mostrate sul tavolo di un’associazione, né i report sulla situazione abitativa pubblicati puntualmente alla vigilia del 23 novembre e puntualmente dimenticati il giorno dopo. Bucaletto nasce dal terremoto, da una ferita nella terra che è anche ferita sulla pelle dei suoi abitanti, che nei prefabbricati hanno respirato per anni le polveri d’amianto e che sono separati dal rigore dell’inverno e dal caldo torrido dell’estate da lamiere troppo sottili. Una ferita nel linguaggio: “Tu sei di Potenza?”, “Ogni tanto vengo a Potenza”, “Io sono di Potenza, tu sei di Bucaletto?”, le parole che usiamo ci tradiscono, rispecchiano un confine netto tra la città capoluogo e questo quartiere, un senso di separatezza fisica che diventa anche psicologica, sociale, culturale. Per capire questa realtà, è necessario incontrare le persone che la abitano e sentir bruciare sulla propria pelle quella ferita.
Saverio mi porta a visitare la chiesa, mi mostra una madonna in culla che lui ed altri amici hanno aiutato a trasportare, camminiamo lungo la navata centrale. Le pareti sono tutte bianche e c’è una luce diffusa che ti scalda. “Il bianco è il mio colore preferito: dà speranza” mi dice. Gli sorrido: sono io che non trovo le parole. Poi passeggiamo tra i prefabbricati, mi spiega che Bucaletto è come una racchetta da tennis vista dall’alto: ha una pianta circolare e ogni punto è collegato all’altro dalla rete invisibile della racchetta e da quando si è bambini qui si può uscire da soli perché quella rete ti porta sempre da qualcuno che conosci. Arriviamo al belvedere e iniziamo a scendere una lunga scalinata. “Sai quante volte su queste scale abbiamo mangiato la pizza tutti insieme? Venivamo qui in venti, anche trenta ragazzi. I miei migliori sabato sera.” Passiamo davanti a un muro su cui c’è un enorme dipinto: in lontananza il fumo di una fabbrica e palazzi illuminati, al centro donne e uomini il cui corpo è coperto da un semplice panno, come nelle rappresentazioni del Cristo flagellato, che sorreggono un pezzo di terra che accoglie casette a schiera, alberi e una chiesa bianca. Mi fermo per metterlo meglio a fuoco. “Questo dipinto è il simbolo di Bucaletto. Ti faccio parlare con la persona che conosce l’artista, la sua bottega è proprio qui dietro, andiamo”.
Michela Marino è un’artigiana, la sua bottega ha la delicatezza dei luoghi in cui ogni oggetto è fatto a mano, ed è anche la referente dell’associazione La Nuova Cittadella la cui sede è nel prefabbricato accanto. “Raccontale della tua vita a Bucaletto, ma raccontale le cose belle non quelle brutte” le dice Saverio sorridendo. Lei lo guarda e in pochi secondi assisto ad una partita a tennis tra estremi polarmente opposti. Speranza e disillusione. Ottimismo e realismo. Vincere e perdere. “Non parlo così senza un motivo, venite con me” e ci porta nella sua associazione, accende una stufa e tira fuori faldoni su faldoni che dispone sul tavolo. “Questi sono tutti i progetti che ci hanno presentato negli anni, progetti per riqualificare questo quartiere e dare una casa a tutti. Non è mai successo niente, sono rimaste solo parole”. Rimaniamo tutti e tre in silenzio. “Ma tu sei ancora qui, ci credi ancora anche tu” insiste Saverio. “Io sono rimasta perché non ci sono più attività commerciali e se vado via anch’io è tutto finito” “Sei troppo arrabbiata” “Non sono più nemmeno arrabbiata e questa è la cosa più triste che ci sia perché quando va via la rabbia, arriva la rassegnazione”. Le parole di Michela sono un bisturi che incide con precisione chirurgica il lembo di pelle malata che non è stata curata per troppo tempo e ha iniziato a marcire. Nei suoi discorsi non ci sono sbavature, nulla che tradisca l’emozione. Mi racconta delle battaglie che ha portato avanti, delle promesse che sono state elargite e disattese, di una stanchezza che fiacca le ossa e lo spirito. Si è fatto tardi e tutti e tre dobbiamo andare via. Mentre usciamo dalla sede dell’associazione e ci chiudiamo la porta alle spalle, si affaccia dalla finestra del prefabbricato di fronte una signora. “Maria vieni qui ti devo presentare questa ragazza” la invita Michela e il suo viso cambia espressione. Maria ci corre incontro, racconta all’amica di aver superato poche ore prima l’esame da chef e del sogno di lavorare in un agriturismo, poi si abbracciano. In quell’abbraccio liberatorio c’è tutta la gioia di chi faticosamente ha raggiunto un traguardo che potrebbe cambiarle la vita e l’orgoglio di chi, di quella fatica, è stato silenzioso testimone. “Maria cucina benissimo, devi venire a mangiare qui qualche volta”. Michela ha gli occhi lucidi e le sue parole sono diventate carezze.

Io e Saverio torniamo al bar, saluto lui e la moglie, mi stringono forte e vado via. Mi rimetto in macchina, accendo la radio e lentamente lascio Bucaletto alle mie spalle. Cerco di mettere a fuoco dentro di me ancora una volta quel dipinto sul muro. Dopo quarantacinque anni, quella ferita brucia ancora.
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