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Francesca Palumbo: il fioretto con grazia

Intervista esclusiva all'atleta che ha portato la Basilicata sul podio di Parigi: «Lo sport è uno specchio sincero, ti mostra chi sei, anche quando perdi». E racconta il sogno realizzato, la fatica silenziosa e l’orgoglio delle sue radici: «La mia forza è la resilienza. È tipica di noi del Sud: silenziosa, ma potente»

Francesca Palumbo: il fioretto con grazia

Gentile, determinata, riconoscente. Se dovessi scegliere tre aggettivi per descrivere Francesca Palumbo, prima atleta lucana in assoluto ad aver vinto una medaglia olimpica, userei questi. Ci incontriamo nella hall di uno storico hotel nel centro della capitale, in una classica giornata da ottobrata romana, soleggiata e caotica. Sul tavolino davanti alle poltrone su cui siamo sedute ha posato la prestigiosa medaglia d’argento con i famosi cinque cerchi, la fiaccola e la scritta «Paris 2024».

La domanda sarà banale ma che emozione è stata vincere questa medaglia ?
«L’Olimpiade è il sogno di ogni atleta, è ciò a cui ambisce qualsiasi professionista. È la manifestazione che celebra lo sport, i suoi valori, la sua storia e quindi raggiungere l’Olimpiade è il massimo per chi si avvicina a questo mondo, qualunque sia la disciplina. Ad esempio il tennis ha come centralità lo slam ma tutti i più grandi hanno voluto partecipare e prendersi il pezzetto di diventare campione olimpico perché è il maggior risultato raggiungibile dall’atleta in quanto tale».

Io sono un’amante delle Olimpiadi e se dipendesse da me, le celebrerei ogni anno. Lei, da atleta, cosa ne pensa?
«Ciò che rende speciale e preziosa l’Olimpiade è la sua rarità, un po' come il passaggio delle comete. Sono quegli eventi straordinari che proprio perché sono rari, acquistano ancora maggior valore. Se sia un bene o un male? L’atleta lo rincorre perché è il massimo, perché è l’espressione dell’élite e contemporaneamente la celebrazione di un percorso. Ci si costruisce in quel quadriennio, si conquista il monte Olimpo quattro anni alla volta, salendo ogni anno di un gradino per avvicinarsi alla vetta. Poi quando si arriva in cima, ci si gode il panorama. Certo, il fatto che l’Olimpiade si svolga ogni quattro anni rende tutto più stressante, più duro, perché la tua vita è scandita in quadrienni e quando cominci la salita, non è detto che riuscirai ad arrivare lassù. Tu puoi essere preparatissimo ma può succedere qualcosa che non dipende dalla tua volontà, qualcosa che non puoi controllare, e ti chiedi: ha senso? Ne vale la pena?». 

Lei che risposta si è data?
«La risposta è dentro lo spirito dell’Olimpiade. Io penso che sia come decidere di iniziare un viaggio, lo fai perché è una scoperta, è un percorso di arricchimento personale perché man mano aggiungi dei pezzi alla tua vita. È necessario però avere una meta verso cui dirigere le energie e l’Olimpiade è il faro che noi atleti guardiamo. Poi però tutto quello che ci metti in mezzo è la tua vita, è la strada che hai fatto, le piccole cime che hai conquistato quindi, per rispondere alla domanda, per me ha senso a prescindere».

Forse la “colpa” è anche dell’attenzione mediatica che si concentra in quell’unico momento senza tenere conto del pregresso?
«Purtroppo la narrazione che si fa è come un cono che si stringe sull’ultimo mese ma cosa hai fatto in quei quattro anni per essere lì? Chi ha fatto la famosa salita? L’hai fatta tu, alla penombra perché nessuno è interessato a guardare qualcuno che scala la montagna, l’attenzione va solo su chi mette la bandierina. E’ proprio in quella salita però che succede tutto ed è quello che noi atleti ci portiamo dentro. Io lo faccio per il risultato, certo, ma lo faccio anche per me, per quello che io cerco di essere durante il mio percorso».

Questa è stata la sua prima Olimpiade. Facendo tutti gli scongiuri del caso ed ipotizzando che non ci siano imprevisti, quante pensa di riuscirne a fare, considerando che la carriera sportiva ad alti livelli è relativamente breve o almeno così sembra dall’esterno?
«Essere sportivo è un modo di vivere, di essere. Si ricollega agli obiettivi che ti dai, se ha senso o meno dedicare tutta la vita a raggiungere un qualcosa che potresti anche non raggiungere mai. Questo poco conta se poi tu decidi di essere un certo tipo di persona ossia qualcuno che si impegna fino in fondo, che è disposto a scarificare tanto di sé e a mettersi in gioco completamente perché alla fine, la cosa fondamentale è quella. Lo sport ti mette un po' a nudo. Quanto sei disposto a sacrificare e a vedere di te durante questo percorso? Per quanto riguarda il numero di Olimpiadi, dipende da quanto l’atleta riesce ad essere competitivo nel tempo, nel cambio generazionale, nelle scelte che vengono fatte intorno. La scherma è uno sport abbastanza longevo perché è molto mentale, strategico. Se hai un fisico ben allenato e hai la fortuna di non incappare in infortuni gravi che limitano la tua carriera, puoi gareggiare ad altissimi livelli ben oltre i 35 anni. Come è stato per Valentina Vezzali e Arianna Errigo, portabandiera delle Olimpiadi di Parigi, nonché per me una cara amica».

Ha definito amica una sua collega. È possibile quindi costruire dei rapporti personali in un contesto competitivo come quello dello sport? Lei ci è riuscita?
«In un ambiente competitivo non è semplice costruire delle relazioni che siano profonde, di fiducia. Ovviamente se parliamo strettamente di lavoro, in pedana siamo tutte spietate, non ci sono amiche, com’è giusto che sia, perché ognuna combatte per sé e per raggiungere il proprio obiettivo. Io da sempre porto avanti un mio ideale di atleta che cerca di separare la pedana da quelli che sono i valori della vita. Per me le relazioni sono fondamentali, sono determinanti e io ho avuto la fortuna durante la mia carriera di incontrare persone meravigliose che sono entrate a far parte della mia sfera personale. Non sono tante ma a livello qualitativo è più facile che il numero si stringa piuttosto che si allarghi, cosa che penso valga per tutti. Non è facile ma è sacrosanto che ci siano relazioni vere e profonde anche tra colleghi».

La scherma dall’esterno sembra uno sport “particolare” perché siete avversarie per i titoli individuali e contemporaneamente colleghe per quelli di squadra? Come si riesce a gestire questa dualità?
«Questo secondo me è ancora un altro aspetto perché implica la dinamica della gara a squadre. Una squadra vincente non è necessariamente una squadra amica, composta da persone che si vogliono bene. Se c’è una buona relazione tra i singoli, se c’è armonia, è tutto più facile e piacevole ma non è strettamente necessario. Ci sono state squadre di fioretto femminile composte da persone che non si sopportavano ma hanno fatto la storia di questo sport a livello internazionale conquistando medaglie olimpiche e titoli. Dipende molto dalla capacità professionale di ognuno ma anche dalla gestione del gruppo, da quanto si riesce a tenere unite le persone verso un obiettivo comune e a responsabilizzare ciascun elemento nel fare il proprio. Se c’è sintonia nell’individuazione dei ruoli e c’è fiducia nel cedere un po' il testimone, si crea una magica armonia. E’ un equilibrio difficile perché già gli sport di squadra sono complicati, noi siamo uno sport individuale che il giorno dopo diventa di gruppo. E’ una balance molto complessa da trovare ma il fioretto femminile c’è sempre riuscito, al di là della relazione personale tra le singole atlete perché non bisogna confondere la capacità di lavorare bene insieme, con il fatto di volersi bene o avere sintonia fuori dalla pedana, sono cose molto distinte».

Magari nel raggiungimento di questo equilibrio, si appella alla sua “lucanità”. Quanto si sente legata alla sua regione d’origine? In quale caratteristica si riconosce maggiormente?
«Io sono lucana, sono nata e cresciuta in Basilicata, in quella che chiamo la mia terra, dove ho vissuto fino a 18 anni. Le mie relazioni storiche e le mie persone storiche, sono lì, tra famiglia, amici e palestra. La Basilicata è un punto centrale, fa parte di me, sono intrisa di “lucanità”. Penso che sia stata fondamentale nella spinta che ho avuto nel voler raggiungere questo grande obiettivo che era sicuramente un grande traguardo personale ma io l’ho sempre vissuto anche come una sorta di riscatto sociale. Volevo dimostrare che da piccole realtà del tanto vituperato sud, dove oggettivamente ci sono meno occasioni e meno possibilità perché purtroppo questa è la nostra realtà, fosse comunque possibile realizzare un sogno così grande. Il mio era un sogno di gruppo perché quando lavori con delle persone che ti accompagnano nel tuo percorso, dai un pezzetto del tuo sogno a ciascuno e il sogno diventa collettivo. Questo lo porto con me così come porto il bello e il brutto della mia terra. Il bello perché se io oggi sono riuscita ad arrivare dove sono arrivata, è anche per le persone che ho incontrato, per gli stimoli che ho avuto e per l’ambiente meraviglioso in cui mi sono potuta cullare nei primi anni. Porto con me anche il brutto perché le difficoltà ti forgiano, della serie o ti arrendi e demordi o vai avanti in qualche modo e la pelle diventa più dura. Tutta quella difficoltà di farmi spazio in ambienti e con persone che non pensavano che il mio obiettivo fosse importante. Ricordo ad esempio la fatica nel conciliare studio e sport, ricordo con gioia le persone che mi hanno sostenuta nel percorso ma ricordo anche quelle che non l’hanno fatto. Per me è stato difficile nell’età dell’adolescenza tenere insieme due aspetti della mia vita che per me erano entrambi importantissimi. Tutto questo percorso, bellissimo e faticosissimo, ha forgiato quella che è Francesca oggi, una persona che di fronte alle difficoltà non si spaventa più di tanto perché è riuscita a nutrire quella resilienza che è tipica di noi del sud, di noi lucani. Abbiamo un carattere molto silenzioso ma molto potente. Essere silenziosi non vuol dire non avere cose da dire. L’aspetto della lucanità che ho fatto mio è questo: prendersi il proprio spazio in silenzio, col lavoro costante, con la resilienza. Dire la tua però sempre in modo dignitoso e composto, senza platealità, senza quegli orpelli inutili che non servono perché non sono il succo del nostro percorso».

Cosa le manca di più della Basilicata e, di conseguenza, cosa la fa sentire a casa quando la ritrova?
«Sicuramente la mia famiglia, averla lontana mi dispiace e mi pesa. Poter tornare dai miei, nella casa dove sono cresciuta, dagli amici di famiglia che sono per me un pezzo di famiglia allargata e dai miei di amici, ecco per me quello è ossigeno puro. Mi permette di ricaricare le energie, di ritrovare la pace interiore e quel nutrimento profondo per l’anima che per me è molto speciale. Purtroppo non riesco a tornare a casa spesso perché sono sempre fuori per trasferte e gare ma sicuramente Natale e qualche settimana d’estate sono appuntamenti irrinunciabili. Quando posso, faccio qualche “scappata” nei weekend. Pasqua era un altro appuntamento ma purtroppo non riesco più perché abbiamo ritiri o addirittura gare. Ritornare a quei sapori e a quelle luci, ad un ritmo che è completamente diverso da quello che vivo quotidianamente, per me è impagabile ed imparagonabile a qualsiasi altra cosa».

Mi parla di sapori, siamo davanti ad un caffè, posso chiederle qual è il piatto che associa alla Basilicata e, in generale, che posto ha il cibo nella vita di un’atleta? Lei segue delle regole rigide?
«Nella scherma non abbiamo regole rigide perché, a differenza di altri sport, non abbiamo la problematica del “taglio del peso”. Sicuramente però un’atleta ha un regime alimentare sano che viene calibrato in base ai periodi e alle necessità. Dall’esterno si pensa che lo sportivo sia sempre a stecchetto che non possa mai togliersi uno sfizio, mai godere di un cibo ma per me non è così. Per quello che riguarda il mio sport, essendo anche mentalmente impattante, al centro c’è il benessere della persona. Per noi il mezzo chilo in più non è determinante se eccedendo un po' in quel cibo che ci piace, si riesce ad essere più sereni. Detto questo, siamo dei professionisti quindi ovviamente stiamo attenti a quello che mangiamo, più che altro in termini di reintegro delle sostanze perché mangiare in modo corretto è un modo per recuperare meglio, significa integrare quello che serve per esprimerci al massimo e ridurre il rischio di avere infortuni. Dietro l’alimentazione si apre un mondo che non è limitato al peso. Non è un discorso di grammi ma di qualità e di ciò che ti restituisce il cibo rispetto a quello che devi fare. E’ chiaro che se mi alleno 10 ore devo mangiare in un modo, se mi alleno 2 ore devo mangiare in un altro. In merito alla domanda sul mio piatto lucano preferito, la scelta non è facile perché ce ne sono tanti però dico che la pasta fatta in casa condita con il sugo di carne, salsicce, polpette, spuntature insomma bello ricco come si fa da noi, è difficile da battere anche perché mi dà una gioia quasi infantile, anche nel profumo».

Nella sua tranquilla vita da bambina potentina, ad un certo punto entra la scherma. Ci vuole raccontare com’è andata?
«Certo … ho iniziato a Potenza, sono cresciuta nella schermistica lucana con il maestro Joseph De Carlo che è ancora in attività ed il maestro Giuseppe Pinto che purtroppo è mancato qualche anno fa. Un mio grandissimo dispiacere è quello di non avergli potuto regalare la gioia di aver raggiunto l’Olimpiade perché lui me ne parlava sempre, era un sogno di cui chiacchieravamo quando io ero appunto ancora una bambina. Purtroppo è morto esattamente un anno prima ed è stata una delle prime persone a cui ho pensato quando mi hanno comunicato che avrei partecipato alle Olimpiadi (al ricordo gli occhi di Francesca si riempiono di lacrime e la voce si spezza, ndr). Io sono nata e cresciuta con loro, in una palestra molto piccola ma sono stati gli anni più divertenti. Adesso sui bambini c’è pressione tanto che spesso mi chiedono: “come facciamo a vincere”? Quello che rispondo è che si devono divertire, deve essere un piacere. Poi se si vince, se si diventa professionisti, se si scopre che oltre al divertirsi c’è quel qualcosa in più che ci fa diventare i più forti, ben venga. Ma è una cosa in più, non è il fulcro perché altrimenti si perde proprio il senso di quello che ti dà lo sport cioè migliorarti, a qualsiasi livello. Rincorrere la singola medaglia invece è come togliere ad un piatto ricchissimo tutto e lasciare dentro solo un pezzo. E’ uno sminuire quello che c’è dietro ad un lavoro che fa un bambino quando si confronta con un’attività competitiva, con la complessità nell’incontrare i propri limiti, le difficoltà, i desideri. Io ho iniziato con un gruppo di amici perché mi piaceva l’atmosfera della palestra, lo stare in compagnia. Poi è venuto fuori quasi subito che ero brava e quindi poi le cose sono successe in maniera naturale, il che non vuol dire che dietro non ci siano lavoro e tanta fatica, impegno e sacrifici però tutto in modo naturale, non forzato».

I suoi genitori che ruolo hanno avuto nel suo percorso?
«Sono stati fondamentali. Se oggi sono qui lo devo principalmente a loro. Poi per carità ogni singola persona che ho incontrato nel mio percorso ha avuto dei meriti nel darmi quel pezzetto che mi ha permesso di costruire il mio cammino però se c’è un ringraziamento originario, senza il quale tutto il resto non sarebbe servito a niente, è quello ai miei genitori che sono stati presentissimi. Hanno sostenuto quello che era importante per me, hanno dato fiducia al sogno di una bambina e non perché volevano che arrivassi alle Olimpiadi ma perché vedevano l’entusiasmo che mettevo in quello che facevo. Hanno sacrificato tanto nel senso di tempo, impegno, soldi, sono stati i miei primi sponsor sotto ogni punto di vista oltre che i miei primi tifosi. Venendo noi da una realtà complessa, anche a livello di spostamenti e di opportunità, senza i miei genitori non sarei riuscita a fare niente. Sicuramente sono stata molto fortunata ad avere delle persone che potevano farlo e che hanno voluto farlo. Hanno creduto in me, mi hanno scarrozzata in tutta Italia, hanno trascorso giornate intere nei palazzetti, mi hanno accompagnata anche nelle mie prime gare all’estero. Al mio primo europeo under 17, ad esempio, loro c’erano ed hanno cercato di esserci fino all’under 20. Quindi il mio più profondo grazie e la mia ammirazione vanno ai miei genitori per quello che hanno fatto per me, per la cura di tutti i problemi che ci sono dietro l’atleta, dagli infortuni alle difficoltà, ai professionisti da cercare. Loro sono stati fondamentali».

Essere un’atleta è complicato. C’è stato un momento in cui ha pensato di mollare e tornare a fare una vita “normale”?
«Devo essere sincera, no. C’erano delle volte in cui mi rendevo conto che non facevo una vita normale per l’età che avevo. A 15 anni ho iniziato a girare il mondo da sola quindi ero spesso fuori, viaggiavo, conoscevo gente che veniva da tutta Italia perché la nazionale un po' raggruppa; incontravo anche persone dall’estero con cui sono diventata amica negli anni perché poi con alcune figure ci siamo accompagnate nel percorso. Non era normale neanche quello che facevo a casa perché ad esempio al liceo passavo le giornate ad allenarmi e le nottate a studiare quindi non avevo tempo per uscire. Idem all’università dove, non riuscendo a frequentare tutte le lezioni, spesso mi perdevo i classici gruppi di studio; di feste universitarie ne avrò fatte due in vita mia. Sono stati anni in cui ho avuto modo di conoscere tante persone, tanti amici ma sempre con rigore perché la mattina dopo dovevo allenarmi. Cercavo di coordinare esami e gare, tutto organizzato al millesimo del secondo. Non avevo tempo di godermi alcune cose che, devo essere sincera, penso fossero belle. Quindi un po' si, mi è dispiaciuto però quando fai delle scelte, sai qual è la cosa più importante per te stesso in quel momento. Pertanto piuttosto che di sacrificio, parlerei di scelta. Dall’esterno quando si sente parlare gli atleti di sacrificio sembra tutto uno strazio quindi giustamente i ragazzi si chiedono “perché io dovrei appassionarmi ad una vita di sacrificio e dolore?” (ride, ndr). Sicuramente è una vita che ti spinge al limite fisico e mentale. Tu sei una macchina sempre portata al massimo dei giri e la complessità di gestire questa pressione è una grande fatica però io dico sempre: non è solo fatica, dipende da come la guardi. Mi spiego meglio, è una fatica tremenda se sei costretto a fare qualcosa che non ti piace. Altro è dire: io oggi scelgo cosa è buono per me, mi metto alla guida della mia vita, le do una direzione. Mi prendo le mie responsabilità, scelgo liberamente cosa fare e quindi, quando ti muovi liberamente, devi dire sì a qualcosa e no a qualcos’altro. Per me non significa dire “sì al gelato e no alla dieta” ma “sì al gelato e no alla torta” quindi scegliere tra due cose ugualmente importanti come ad esempio la festa con gli amici e riposarmi un’ora in più per allenarmi meglio perché, ad esempio, ho una gara tra una settimana ed è importante curare questo aspetto. Questo per me significa fare una scelta».

Prendere certe decisioni quando si e poco più che bambini implica un alto livello di maturità …
«Non è facile assolutamente. Dipende dalla passione che ci metti, da quanto è forte il tuo sogno, da quanto ci credi. Perché se il tuo sogno è arrivare laggiù allora ne vale la pena. Mi ricordo la prima volta che ho visto la scherma alle Olimpiadi dopo che avevo iniziato a praticarla. Parliamo di Atene 2004, la finale tra Valentina Vezzali e Giovanna Trillini. Io ero al mare a Maratea, a casa dei miei zii e guardavo queste campionesse da una piccola televisione, tipica delle case al mare. Vedevo la pedana, bellissima, e io, bambina di otto anni, mi dissi che un giorno sarei voluta essere lì come loro. La mia storia ha un lieto fine però da otto anni la mia prima Olimpiade l’ho fatta a 30 quindi la strada è stata lunga. Trasformare il sogno di un bambino in un sogno lavorativo è complesso, i pesi e le realtà cambiano e lì bisogna essere in grado di ricostruire, di riuscire a sfamare quel sogno originario con cose nuove perché in parte è il desiderio di quando avevi otto anni ma nel frattempo si è arricchito e anche appesantito. E’ fondamentale però che quel sogno da bambino resti per dargli ogni tanto una spolverata e ricordarsi di quell’omino d’origine, dargli forza, focalizzarsi su di lui e non su ciò che c’è intorno. Quindi si, io parlo sempre di scelta perché nella scelta vinci sempre, può andare bene o male ma in qualche modo tu sei padrone della tua vita. Non mi piace dire “è andata così, mi ci sono trovata”. Perché ti ci devi trovare? Scegli! Scegliere ti permette di capire come sei fatto, se quella scelta è stata giusta oppure non è adatta a te. Nessuno ha la palla di cristallo soprattutto quando sei dentro alle cose perché hai una prospettiva diversa rispetto a quando le guardi a distanza di tempo riuscendo anche ad analizzarle. Quando ci sei dentro non è sempre facile fare la scelta migliore però in qualche modo è comunque quella giusta per te perché l’hai identificata come tale con gli strumenti che avevi a disposizione in quel momento. È importante che la scelta sia consapevole perché solo così si riesce ad analizzare con maggiore curiosità il risultato che non è altro che l’esito di tutta una seria di pezzi messi insieme, è come un puzzle. Si riesce a capire cosa non ha funzionato e a fare i conti con la realtà però per farlo è necessario che ci siano curiosità e voglia di mettersi in gioco altrimenti si rimane aggrappati alle proprie certezze con gli occhi chiusi, facendo finta che non sia una nostra responsabilità. Invece la ricchezza che ti dà lo sport è anche quella di costringerti a guardare la realtà attraverso il risultato, che non è determinante, ma ti parla chiaro. È uno specchio che ti restituisce dei dati molto sinceri di cui non bisogna avere paura perché parlano di noi. Non tanto di chi siamo e del nostro valore ma di come abbiamo lavorato e, se la cosa non ci è piaciuta, come potremmo fare meglio. Quindi qual è il problema anche quando non raggiungo il risultato se poi c’è una continua crescita verso ciò che voglio essere? È un continuo costruire e rompere ma nella rottura in qualche modo il percorso cambia, non rimane uguale, perché ci arricchiamo facendo esperienze nuove e quella complessità non la cogli se non vai a fondo nelle questioni. Rischi di guardare numeri e risultati e se guardi solo sacrifici e numeri ti chiedi se ne vale la pena. Se la viviamo in questi termini, no. Se invece ti focalizzi sull’arricchimento e sulla dinamicità della tua vita, allora ne vale la pena sicuramente. Lo sport non è mai solo sport ma porti dentro te stesso. Sulla pedana io porto non solo la Francesca atleta ma la persona, i valori, quello che sono, il modo in cui scelgo di essere su quella pedana. Fare sport è un’espressione di te, è uno strumento che hai per esprimerti senza paura di cadere e rialzarsi perchè ti fa capire che i buchi e le macchie ce li abbiamo tutti, fanno parte di noi e non sono una cosa che dobbiamo coprire. Perché gli altri devono pensare che io sia perfetta? Io sono consapevole dei miei limiti e delle difficoltà che in qualche modo sono l’ombra della mia luce. Se c’è luce, c’è ombra, è inevitabile. Se sono coraggiosa vuol dire che ho anche paura di determinate cose, se sono una persona vincente vuol dire che ho dovuto provare delle soluzioni per esserlo perché niente arriva per caso. Sicuramente troverai dentro al vincitore anche un gran perdente che tante volte non c’è riuscito quindi anche lì è necessario essere molto onesti con se stessi e dire “sì, ci sono cose che non so fare, situazioni in cui non sono stata efficace però poi mi sono servite per dare una nuova forma al mio percorso”».

Una domanda che faccio sempre è: quali sono i tre momenti più importanti della sua vita personale e/o professionale? Quali sono le tre fotografie?
«La prima è una litigata furiosa con il mio maestro Fabio Galli fatta nel 2018 che ha cambiato la prospettiva ed il modo di essere atleta. L’autonomia con cui ho proseguito il percorso la devo a quell’episodio che è stato la svolta della carriera. Ovviamente dietro al momento c’è una storia ma se devo individuare una fotografia, quel momento lì mi ha permesso di passare da un’atleta forte ad un’atleta d’élite capace di giocarsi europei, mondiali e addirittura un’olimpiade. Avevo 25 anni».

Chi aveva ragione?
«Ovviamente il maestro, se si chiama maestro un motivo ci sarà (ride, ndr). Quella tra atleta e maestro è anche una dinamica molto difficile perché ci si scontra e devo dire che da quel momento lì, sono riuscita a fare un salto di carriera. Fu una discussione molto critica in cui lui minacciò di non allenarmi più. Se io sono evoluta come atleta, lo collego molto a quell’episodio lì. La seconda fotografia è il mondiale di Milano del 2023. Lo porto sempre nel cuore perché è stato un momento intenso sotto ogni punto di vista. Era un periodo estremamente delicato della mia carriera perché dopo un anno ci sarebbero state le Olimpiadi, era un crocevia importante. Ho avuto la responsabilità di intervenire in una situazione per chiudere un mondiale, un qualcosa che non avevo mai sperimentato. Si trattava poi un mondiale in casa! E’ stato uno dei momenti più felici della mia carriera ma anche uno dei più intensi per tutto il significato che aveva. Il terzo momento: le Olimpiadi di Tokyo, per varie ragioni che preferisco non approfondire però il fatto di non averle fatte, anche per come tutta la vicenda si è svolta, è qualcosa che ha contribuito a dare la base per il successo nelle Olimpiadi successive. E’ stato uno degli episodi più dolorosi e intensi della mia vita, molto difficile da gestire ma ritengo che sia stato utile, nel bene e nel male. Penso che le ceneri di quelle Olimpiadi abbiano fatto da grande nutrimento per il percorso degli anni successivi. In questo episodio torna la dinamica della scelta: scegliere come vogliamo che qualcosa ci condizioni perché ci sono degli eventi talmente determinanti e forti che cambiano la persona e la sua vita. Sta a noi capire quanto vogliamo che siano questi episodi a guidarci e quanto invece vogliamo essere noi a fare una scelta e decidere come farci cambiare. La linea è molto sottile, sembra una banalità ma in quei momenti è facile lasciarsi trascinare dagli eventi, soprattutto se sono difficili. Invece bisogna fermarsi un attimo e dire “io non voglio diventare quel tipo di persona, non voglio diventare quel tipo di atleta. Non voglio dare questo nutrimento alla mia vita e alle mie motivazioni ma quest’altro”. Quindi in qualche modo ti rimbocchi le maniche e combatti anche contro qualcosa che fa rumore dentro di te ma a cui decidi tu quale direzione dare».

Quali saranno i prossimi impegni?
«A novembre ci saranno tutte le gare di coppa del mondo, con varie frequenze. In alcuni momenti la frequenza è di una gara ogni due settimane, poi c’è uno specchio di tempo in cui le date sono più diradate e quindi magari passano anche 3 settimane tra una gara e l’altra; altre volte invece parti e ritorni».  

La vita degli sportivi corre veloce. Pensa ogni tanto a cosa le piacerebbe fare a fine carriera?
«Ho tante passioni, ho studiato economia (ndr è laureata in “Economia e management” presso l’Università di Tor Vergata) e a breve comincerò, se riesco, una specialistica quindi mi piacerebbe continuare a studiare. Ho molti progetti in testa, tante cose che mi piacerebbe fare perché penso di poter comunicare qualcosa agli altri anche al di là dello sport. Ho delle idee, degli stimoli non ancora ben definiti, tutto un po' da scrivere ma c’è tempo per pensarci».

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