IL MATTINO
Cultura
06.10.2025 - 16:25
Quando Karen Blixen scrisse la novella "Il Pranzo di Babette", mai avrebbe potuto immaginare quanta parte avrebbe avuto, nella nostra vita, il cibo e i discorsi che vi ruotano intorno. E meno che mai avrebbe potuto immaginare come un lavoro, considerato umile, ancora oggi dalle classi sociali scarsamente alfabetizzate, trovasse un'eco così ampia, tanto da portare alla realizzazione di un film come "Il Menù". Un thriller satirico del 2022, diretto da Mark Mylod, con protagonista Ralph Fiennes, che è il risultato proprio di quel testo della Blixen, estremizzato e impiantato in quella che è la società di massa in cui viviamo.
Per quanto la fame nel mondo non sia stata debellata, nemmeno con la libera circolazione delle merci, il cibo è diventato un buco nero, più profondo della stessa fame. Perché oggi ciò che conta è la spettacolarizzazione del cibo stesso, grazie alla figura degli chef, che da portatori di benessere e di gusto si sono trasformati in custodi delle solitudini dei clienti, sempre meno capaci di perseguire il piacere, e sempre più orientati a frequentare i ristoranti stellati per esibire uno status, di cui loro per primi mal sopportano le regole, al punto di avere dimenticato come si mangi, preferendo un fermo immagine ad un piatto vero e proprio.
Il Pranzo di Babette
"Capricci del destino" è l’ultima raccolta di racconti pubblicata da Karen Blixen prima della sua morte (1962). È considerata una sorta di testamento letterario, e "Il pranzo di Babette" ne rappresenta uno dei vertici tematici e stilistici. Questo racconto è ambientato in Norvegia. È la storia di due anziane sorelle, figlie di un pastore protestante, che vivono in un villaggio sperduto in maniera parca. In casa loro ospitano Babette, una rifugiata francese fuggita da Parigi a causa della guerra civile. Dopo quattordici anni di servizio, Babette vince alla lotteria e decide di cucinare un sontuoso pranzo, francese, per ringraziarle. Il pranzo, raffinato e ricchissimo, provoca una trasformazione nei convitati grazie proprio alla cucina, che diventa un ponte umano. Per la prima volta l'austerità delle signore e degli altri invitati incontra la ricchezza della cultura e dell'arte francese. Il medium di questa operazione è Babette, ex chef di un ristorante di lusso parigino, che attraverso la sua arte (perduta) restituisce centralità al cibo e al suo potere unificante.
Karen Blixen e il cibo
La relazione tra Karen Blixen e il cibo è complessa, soprattutto alla luce della sua sofferenza per disturbi alimentari, tra cui l’anoressia nervosa (mai diagnosticata ufficialmente, ma fortemente ipotizzata da biografi e studiosi).
Nel contesto di questa sua problematica personale, “Il pranzo di Babette” (racconto del 1958) assume un valore quasi simbolico, se non addirittura catartico.
La Blixen era ossessionata dal controllo del corpo, del cibo, della scrittura, della vita. Aveva una relazione ambigua con gli alimenti, alternando momenti di privazione a momenti di malessere, con un corpo sempre più fragile (anche a causa della sifilide e dei trattamenti con arsenico per curarla). L' aspetto emaciato e l' autodisciplina erano parte della sua costruzione estetica e identitaria.
Per una donna che aveva scelto il digiuno, come forma di controllo, scrivere un racconto sull'abbondanza, come liberazione, è quasi un paradosso. È come se la Blixen, attraverso Babette, immaginasse un sé alternativo, capace di donare e godere senza paura.
Il cibo in Babette non è minaccia, non è peccato. È grazia. In un mondo in cui la Blixen vedeva il corpo come fragile o colpevole, questo racconto riconcilia corpo e spirito attraverso l’estetica.
Babette, come la Blixen, si sacrifica per l’arte. Spende tutto per un momento irripetibile. Come la Blixen stessa, che spesso viveva al limite, consumata dalla scrittura e dalla malattia.
“Il pranzo di Babette” può essere letto come una forma di sublimazione. La scrittrice anoressica immagina un mondo in cui il cibo non è nemico, ma mezzo di salvezza. È una visione redentrice, estetica, spirituale e profondamente umana.
Una parabola sull’arte, sull’amore e forse su un desiderio inconfessabile: potere finalmente nutrirsi, donarsi, senza perdere se stessi.
Il Menù
Un gruppo selezionato di clienti viene invitato su un'isola remota per cenare in un ristorante ultra-esclusivo chiamato Hawthorne, diretto dal famosissimo chef Julian Slowik (Ralph Fiennes). L'intera esperienza culinaria si rivela presto tutt'altro che ordinaria. Ogni portata del menù fa parte di una narrazione perfettamente orchestrata, dietro la quale si nasconde un piano inquietante.
La tensione cresce mentre i commensali iniziano a comprendere che c'è qualcosa di sinistro nel menù della serata. La giovane Margot (Anya Taylor-Joy), unica persona non prevista tra gli ospiti, cerca di capire cosa stia realmente accadendo.
Il film prende di mira il mondo della gastronomia di lusso e, più in generale, la cultura snobistica che celebra l’esclusività a discapito della sostanza. Ogni ospite rappresenta una tipologia di cliente tossico o superficiale: il critico gastronomico arrogante, il fanboy ossessionato dallo chef, il ricco che non sa apprezzare ciò che ha.
Lo chef Slowik è un artista disilluso, stanco di cucinare per persone che non comprendono o apprezzano la sua arte. La cena diventa un’opera teatrale, un’esecuzione artistica totale, in cui cibo, messaggio e vendetta si fondono.
Margot è l’unica che mette in discussione la legittimità dell’esperienza e del potere dello chef. Il suo approccio "non elitario" la distingue dagli altri ospiti e crea una frattura nel piano perfetto dello chef.
Ralph Fiennes offre una performance magnetica e inquietante. Il suo Slowik è al tempo stesso carismatico, minaccioso, tormentato e perfettamente controllato.
Anya Taylor-Joy è il punto di vista dello spettatore. Il suo personaggio rappresenta il buon senso e la resistenza all’assurdo.
Il film è pieno di simbolismi culinari e teatrali. Ogni piatto servito ha un significato preciso e viene accompagnato da una narrazione dello chef, che lo trasforma in una critica o in una rivelazione. L’esperienza culinaria è costruita come una liturgia ed è cioè: rituale, sacra, inappellabile. Il ristorante stesso diventa un microcosmo, dove le regole sono invertite e la punizione è mascherata da arte.
Mark Mylod, noto per aver diretto episodi di "Succession" porta uno stile visivo elegante, pulito, claustrofobico. Le inquadrature sono precise, quasi geometriche, a sottolineare l'ordine ossessivo del mondo creato da Slowik.
Il tono del film oscilla tra la tensione del thriller, la satira sociale e la commedia nera grottesca, una miscela che può ricordare film come "Get Out" o "Parasite" per certi versi.
Il finale è coerente con l’intera impostazione narrativa e filosofica del film. Chi si aspetta un “horror” puro potrebbe restare spiazzato. Il vero orrore in "Il Menù" non è tanto nei gesti estremi, quanto nella riflessione sociale.
Il film ha ricevuto recensioni molto positive, soprattutto per: l’originalità del soggetto; la performance di Ralph Fiennes; l’intelligenza della satira. Ha avuto successo anche al box office, rispetto al budget relativamente contenuto, e ha consolidato la fama di Anya Taylor-Joy come una delle attrici più versatili della sua generazione.
"Il Menu" è un film brillante e disturbante, che mescola ironia, tensione e critica sociale con grande stile. Non è un horror convenzionale, ma un'esperienza "gastronomica" cinematografica: raffinata, intensa, beffarda.
Le due opere
Entrambe le opere vedono lo chef come figura quasi divina, ma con esiti opposti: Babette redime, Slowik condanna.
Nella novella il cibo è dono e mezzo di comunione. Nel film il cibo diventa uno strumento di giudizio e di satira sociale.
Ne "Il Menù" c'è la critica all’élite che consuma senza comprendere, mentre ne "Il pranzo di Babette" ci viene mostrato come le persone possono essere elevate spiritualmente dall’arte culinaria.
La novella termina con l'armonia e la pace spirituale dei commensali, Il film finisce con la distruzione, ma anche con una liberazione per chi riscopre il valore autentico del cibo .
Il pranzo di Babette è un racconto sull'amore disinteressato e sulla potenza salvifica dell'arte, mentre Il Menù è una satira nera sull’ipocrisia dell’élite e sulla mercificazione dell’arte culinaria. Entrambe riflettono sul ruolo del cuoco come creatore e sulla forza simbolica del pasto, ma da prospettive morali e culturali diametralmente opposte.
Slowik è un artista esausto, frustrato da un’élite che ha ucciso la gioia del cucinare. Ha trasformato l'atto creativo (la cucina) in una punizione, sia per sé che per i suoi ospiti. Il suicidio rituale collettivo è un’estrema forma di performance art. Babette, al contrario, sana attraverso la conoscenza e la rappresentazione estetica e gustosa dei piatti da lei preparati. Rivendica insomma il proprio ruolo di "curatrice" dell'anima. Quello che dovrebbe fare per davvero uno chef attraverso il cibo, soprattutto se la fame non è più un problema di sussistenza per lui e per i suoi commensali e mangiare è un atto , il più profondo, per arrivare alla conoscenza di sé.
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