IL MATTINO
Intervista al giovane parroco
25.09.2025 - 10:39
COLOBRARO- L’intervista con don Flavio Tufaro si svolge durante una passeggiata. Un’ora durante la quale gli stop and go sono stati diversi. Tutti hanno qualcosa di cui parlargli, a conferma di quanto in un lasso di tempo relativamente breve (quattro anni), sia diventato importante per gli abitanti del borgo sinnico, nonostante questa sia la sua prima esperienza da parroco. La scelta di don Flavio nasce da un intreccio di fede, ricerca di senso, desiderio di servizio e bisogno di autenticità. Un gesto che, più che spiegarsi, va ascoltato.
Cosa le è rimasto più impresso dei suoi primi giorni in paese?
«L’elemento più bello che ho registrato è stata l’accoglienza calorosa, generosa e familiare che la comunità mi ha riservato. La generosità nell’inserirmi e farmi integrare nel tessuto religioso e sociale del paese».
Ha dimostrato una certa capacità di tenere insieme giovani, anziani, chi è rimasto a vivere qui, chi torna occasionalmente per qualche giorno all’anno. La definizione “collettore” se la sente addosso? Oppure si definirebbe diversamente?
«Mi ci rivedo e mi piace come definizione perché il compito del parroco, oltre a quello di armonizzare, è creare un’esperienza di comunità. In quest’ottica va letta l’abitudine di andare tutti i giorni a prendere un caffè alle 15:30 al bar, per far sì che diventi un momento informale di incontro. Su questa linea si inserisce anche il proseguimento di alcune attività come il pranzo di solidarietà con la Casa famiglia, con le persone sole e in generale con chi desidera vivere un momento di solidarietà. Poi ci sono gli incontri del venerdì con i ragazzi. Lo scorso anno partivamo da un’immagine o da una canzone e ognuno condivideva le emozioni da esse generate».
Colobraro fa i conti, come tutti i borghi, con lo spopolamento giovanile. Ai suoi incontri, quanti ragazzi partecipano? Sente di essere riuscito ad attrarli?
«Agli incontri, soprattutto all’inizio, partecipavano tutti i giovani del paese, una ventina. Purtroppo però non sento di aver vinto la sfida perché è difficile creare occasioni d’incontro con una generazione che preferisce il virtuale. Però non mi demoralizzo e provo a creare gesti e occasioni per condividere, in modo da provare ad attrarli con esperienze che li coinvolgano. Pur essendo io giovane, non sempre è facile trovare un linguaggio comune, in quanto ci sono prospettive e interessi diversi».
Nel caso degli incontri con i giovani e dei pranzi di solidarietà si tratta di proseguire un percorso già avviato dai suoi predecessori. L’appuntamento con il caffè pomeridiano invece è stata una sua “innovazione”, giusto? Come è stata accolta?
«Direi positivamente, visto l’affetto che mi viene manifestato anche attraverso il “divieto” di pagarlo. (ride). A parte gli scherzi, è un’occasione per incontrarci e per fare una chiacchierata in un contesto sereno, davanti a una buona tazza di caffè, avvolgente come l’affetto e la simpatia che si respira attraverso un incontro al bar».
Se dovesse individuare i tre momenti più importanti del suo percorso personale ed ecclesiastico quali sarebbero?
«L’inizio della formazione in seminario, avevo 15 anni e per me è stato un momento importante anche perché era la prima volta che mi allontanavo dalla famiglia. Il secondo momento quando a 25 anni ho ricevuto l’incarico da parroco.
Il terzo, l’iscrizione alla facoltà di lettere classiche a Potenza. Ho scelto un contesto laico per uscire dallo schema e mettermi in un ascolto ampio e senza pregiudizi della realtà perché, al di là della distinzione credente-non credente, in ognuno c’è la necessità di un ascolto profondo delle cose della propria vita».
Gli altri studenti sanno che lei è un parroco? Come hanno reagito?
«Sì, lo sanno e sono rimasti positivamente colpiti da un prete giovane che vive la loro stessa quotidianità, va in università con lo zaino, mangia il panino con loro…».
Posso chiederle perché ha scelto questo lavoro?
«Certo, anche se non lo definirei lavoro ma missione. Il motivo principale è il desiderio di vivere nell’ascolto degli altri, raccontare la possibilità di speranza e vita all’interno della stessa vita che tante volte possiamo percepire come spenta. Il ruolo che nella società io percepivo come figura di sintesi del mio desiderio era la figura del prete che sceglie di essere nel mondo totalmente dedicato a questo, sceglie di essere uno strumento di mediazione del vangelo».
Papa Francesco diceva che la domanda a cui non riusciva a trovare una risposta e che lo scandalizzava un po', era la sofferenza dei bambini. La sua qual è?
«Quello che turba il cuore del credente è il dolore e la sofferenza degli innocenti, in tutte le stagioni della vita perché fa soffrire e impone una riflessione anche spirituale, per non lasciarsi sopraffare soltanto dal dolore. Siamo alla vigilia della festa dell’esaltazione della Croce, celebrazione che ricorda come Gesù attraversa il dolore e apre, nella sofferenza, la prospettiva della Pasqua. Per non lasciarci sopraffare, dobbiamo tenere presente questo monito: al dolore della Croce, segue la gioia della Resurrezione».
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