IL MATTINO
Analisi
19.09.2025 - 19:31
Nel 2006 uscì "The Queen" il film di Stephen Frears con Hellen Mirren, nel ruolo della regina Elisabetta, che le permise di vincere l'Oscar per la sua interpretazione, magistrale, della sovrana inglese.
Il film, ambientato nei giorni successivi alla morte di Lady Diana, nel 1997, racconta il conflitto tra la famiglia reale, guidata dalla regina Elisabetta II e il neo-primo ministro Tony Blair, sul modo in cui la monarchia avrebbe dovuto reagire, pubblicamente, al lutto nazionale.
La Regina inizialmente sceglie di mantenere il silenzio, fedele al protocollo e alla tradizione. Ma la pressione dell'opinione pubblica e i consigli di Blair la spingono a riconsiderare la sua posizione.
Non è un film d'azione, l'opera esplora il conflitto tra tradizione e modernità, e il peso della figura pubblica di una regina in tempi di crisi (emotiva) nazionale.
È quindi l'opera una raffinata analisi psicologica e politica, ma è anche un modo utile per osservare come, in quella occasione, l'allora primo ministro Blair riuscì a spuntarla.
Come?
Tony Blair
Quando Blair divenne Primo Ministro nel 1997, aveva solo 43 anni. Portò con sé un’aria di modernizzazione anche nell’approccio alla monarchia, che contrastava con lo stile più formale e tradizionalista della Regina.
Blair promosse un’immagine più “popolare”, il che inizialmente creò qualche frizione.
La gestione della morte di Lady Diana fu un momento chiave nei rapporti tra Blair e la Regina.
Blair definì Diana “the People’s Princess”, frase che divenne iconica, e spinse Buckingham Palace ad avere una reazione pubblica in linea con l’emozione popolare.
Inizialmente, la Regina fu riluttante a esprimersi pubblicamente e a tornare a Londra, ma Blair ebbe un ruolo importante nel persuadere la monarchia a mostrarsi più vicina al popolo.
Questo rafforzò, temporaneamente, la posizione di Blair, ma creò anche tensioni sul ruolo e sull’immagine pubblica della monarchia stessa.
In alcune biografie e memorie (come quelle dello stesso Blair), si percepisce una certa distanza emotiva e culturale tra i due.
Blair ammirava Elisabetta per la sua dedizione e per il suo senso del dovere, ma non condivideva sempre il suo modo di procedere.
Negli anni successivi, fu criticato per il suo stile presidenzialista e per aver “personalizzato” troppo la politica, un approccio che si scontrava con l’idea di neutralità e continuità incarnata dalla Regina.
Inoltre, Blair fu accusato da alcuni ambienti monarchici di avere sfruttato la figura della Regina e di Lady Diana a fini politici.
Nonostante il lungo servizio come Primo Ministro, Blair non ricevette il titolo di Cavaliere dell’Ordine della Giarrettiera fino al 2022 (molti anni dopo altri ex Premier), il che fece discutere e fu interpretato da alcuni come segno di un rapporto non sempre caloroso con la Corona.
Entrambi si rispettavano nei rispettivi ruoli, ma provenivano da visioni e mondi molto diversi: Blair era il volto della “Cool Britannia”, Elisabetta II quello della tradizione secolare.
Evidentemente a Tony Blair sarà rimasto questo tarlo, di dovere essere stato costretto a camminare un passo indietro e di dovere essere invece protagonista, e in questa luce può essere compresa la sua "nuova battaglia" che lo vuole, in prima linea, attraverso la sua società di consulenza TBI, per la ricostruzione post bellica di Gaza, in collaborazione con la amministrazione Trump, l’ex consigliere Jared Kushner e l’inviato speciale Steve Witkoff.
Great Trust
Il piano, noto come "Great Trust", immagina Gaza trasformata in un hub commerciale e turistico, con elementi futuristici come:
la “Trump Riviera”, un Elon Musk Smart Manufacturing Zone”, isole artificiali,
infrastrutture high-tech come porti, aeroporti, zone economiche speciali con tassazione agevolata .
Alcune versioni del piano contemplano incentivi economici per indurre fino a mezzo milione di palestinesi a lasciare la Striscia, suscitando per questa ragione accuse di trasferimento forzato e cancellazione etnica.
Il TBI ha ammesso di aver partecipato a discussioni preliminari e di aver condotto un documento interno denominato "Gaza Economic Blueprint", tuttavia ha negato ogni responsabilità nell’elaborazione del piano finale presentato da BCG e imprenditori israeliani .
Il documento interno del TBI proponeva idee infrastrutturali come un porto collegato al corridoio India, Medio Orient, Europa e zone economiche speciali, ma non includeva alcuna forma di spostamento forzato della popolazione.
Il progetto è stato ampiamente criticato dai gruppi per i diritti umani e dagli analisti, perché viene visto come un tentativo di rivalutare geopoliticamente Gaza, senza rispettarne la sovranità palestinese. Sono state espresse serie preoccupazioni riguardo la mancanza di inclusione della società palestinese nei processi decisionali, replicando in questo modo le dinamiche coloniali.
Descritto come progetto di “pulizia etnica” e di “ossessione estetica” senza considerazione per i diritti palestinesi .
Palestinesi e attivisti lo rigettano e lo considerano irrealistico e moralmente inaccettabile. Organizzazioni islamiche e arabe lo respingono come alternativa sostenibile e legittima, sostenendo che i palestinesi restino nella loro terra.
Leader europei (Francia, Germania, Italia, Regno Unito) lo definiscono “realistico” e pronto a migliorare le condizioni di vita .
L'ONU esprime disponibilità a collaborare.
Al Jazeera evidenzia le debolezze della PA e l’opposizione interna alla sua leadership.
Il progetto “GREAT” propone una visione futuristica per Gaza, ma rischia di violare il diritto internazionale e l'autodeterminazione palestinese, mettendo a repentaglio la stabilità regionale. Il piano alternativo arabo-egiziano, pur con le proprie sfide, si fonda sulla ricostruzione inclusiva e il rispetto della popolazione, raccogliendo più consenso sul piano politico e morale.
il Financial Times, tra gli altri, ha evidenziato come il TBI abbia preso le distanze dal progetto nei suoi contenuti più controversi, sottolineando una partecipazione limitata.
Proprio per superare questa impasse e per fermare i bombardamenti e le conseguenti morti siamo arrivati alla Global Sumud Flottilla
La Global Sumud Flotilla
La Global Sumud Flotilla è una missione internazionale di solidarietà, lanciata nella estate 2025, guidata dalla società civile con il preciso intento di rompere il blocco navale israeliano sulla Striscia di Gaza e consegnare aiuti umanitari urgenti alla popolazione palestinese .
L’iniziativa è frutto della collaborazione strategica tra più reti preesistenti, tra cui:
Freedom Flotilla Coalition, Global Movement to Gaza, Maghreb Sumud Flotilla, Sumud Nusantara
Il comitato direttivo comprende attivisti di rilievo a livello internazionale, come Greta Thunberg, Thiago Ávila, Yasemin Acar e Saif Abukeshek, tra gli altri.
Si tratta della più grande spedizione civile via mare mai tentata per Gaza, con circa 50 imbarcazioni e oltre 15.000 partecipanti da 44 Paesi .
L’Italia ha contribuito con circa 45 tonnellate di aiuti trasportati via mare, mentre complessivamente si parla di 200–300 tonnellate di beni umanitari inclusi alimenti, medicinali e carichi medici .
Lo scopo è quello di rompere, simbolicamente, il blocco navale israeliano e di aprire un corridoio umanitario guidato dai popoli, laddove gli Stati non sono riusciti a risolvere la contesa, antica, tra Israele e Palestina
È stato attivato un tracker in tempo reale (in collaborazione con Forensic Architecture) per monitorare la posizione della flottiglia, garantire sicurezza a chi è a bordo e rendere pubblici eventuali attacchi o ostacoli .
La Global Sumud Flotilla è un’operazione civile di portata storica: un’azione nonviolenta, coordinata, internazionale e altamente simbolica pensata per portare aiuti umanitari, sfidare un blocco navale e restituire visibilità e speranza al popolo di Gaza. Nonostante le prime difficoltà legate al maltempo, l’iniziativa ha già mobilitato decine di Paesi, migliaia di volontari e importanti sostenitori pubblici.
A che punto siamo
Siamo al punto che, per rimettere la discussione politica nella giusta prospettiva, si è tornati alla base e cioè agli uomini di buona volontà che si sono armati di cibo e di farmaci e sono partiti alla volta di Gaza, per riportare l'attenzione sugli esseri umani e sul loro diritto all'autodeterminazione prima che sulle nuove colonie. Quello che Tony Blair chiedeva a Elisabetta II, ma che non convinse mai la Regina fino in fondo. Lei pensava che più che all'umanità il premier mirasse alla storia, e l'ultima uscita dell'ex premier inglese ne è la prova.
Eppure c'è un nuovo piano in cui è coinvolto sempre Tony Blair e che «prevede l’istituzione di una “unità per la preservazione dei diritti di proprietà" e la possibilità di dare un certificato che consenta ai palestinesi, che decidano di lasciare Gaza, temporaneamente, di
tornare e rivendicare la proprietà
di case, terre, aziende.» dicono le fonti americane.
L’ex premier britannico, l’altro
ieri, è volato a Parigi. Emmanuel Macron è a capo del movimento che la
prossima settimana porterà dieci
Paesi a riconoscere lo Stato di Palestina, con l'appoggio anche dell’Arabia Saudita di Bin Salman. Questa nuova pista Blair apre prospettive più ampie e fa davvero pensare ad una svolta.
Nel mentre, noi, incrociamo le dita perché
sulle navi, con gli aiuti per Gaza, è difficile procedere: l'attivista svedese lascia il direttivo, il giornalista Yusuf Omar lascia la missione, tanto per citare alcuni dei problemi sorti.
Del resto se non riescono a mettersi d'accordo gli Stati possono mai mettersi d'accordo gli individui?
E sarà proprio Tony Blair a dipanare questa matassa?
Chissà!
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