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Il paese che non deve morire/Settima puntata

Adottiamo San Paolo Albanese, il paese più piccolo della Basilicata prova a resistere 20 anni dopo l’appello per i piccoli comuni

Nel 2001 Realacci e Molinari sembravano Cassandre. Oggi San Paolo Albanese dimostra che avevano ragione: senza servizi, scuole e presìdi culturali, l’Italia minuta rischia di morire davvero

Adottiamo San Paolo Albanese, il paese più piccolo della Basilicata prova a resistere 20 anni dopo l’appello per i piccoli comuni

Ermete Realacci e Giuseppe Molinari

Il Mattino di Puglia e Basilicata ha deciso di adottare San Paolo Albanese perché questo borgo di appena 204 anime è un simbolo. È l’ultima frontiera di un’Italia che rischia di sparire senza che nessuno se ne accorga. La frase contenuta nel Piano nazionale delle aree interne – quella che parla di «declino irreversibile» e di una «chiusura dignitosa» – è stata come un colpo di pistola nel silenzio della Val Sarmento. Che suona come resa dello Stato. E non si può accettare. Adottare San Paolo Albanese significa schierarsi dalla parte di chi resiste. È un modo per dire che un giornale non deve soltanto registrare il declino, ma può e deve diventare un alleato di una comunità dimenticata. San Paolo è il comune più piccolo della regione, ma dentro di sé custodisce un patrimonio immenso: la lingua arbëreshë che ancora si parla in casa, il rito greco-bizantino celebrato in chiesa, i costumi tradizionali tramandati dalle donne, le feste popolari che ogni anno riportano emigranti e viaggiatori. Qui non c’è folklore da cartolina, c’è identità. Un giornale che nasce e vive tra Puglia e Basilicata non può permettere che il paese più fragile venga accompagnato al cimitero delle statistiche. Per questo il Mattino di Puglia e Basilicata ha scelto di adottarlo. Non con sterile retorica, ma con una campagna quotidiana che racconterà il borgo per quello che è: un laboratorio di resistenza, un avamposto culturale, un pezzo d’Italia che merita di essere conosciuto. Lo facciamo perché crediamo che raccontare equivale a proteggere. Perché dare voce a San Paolo Albanese significa restituirgli dignità, farlo uscire dall’invisibilità, far capire al Paese intero che se cade lui, cade un intero modello di convivenza. Adottarlo, per noi, significa affiancare i cittadini nella loro battaglia. Settima puntata.

San Paolo Albanese ci consegna una verità semplice: la profezia sui piccoli comuni non era una posa retorica né una nostalgia da cartolina. Nel 2001, Ermete Realacci e Giuseppe Molinari (erano deputati dell'Ulivo) presentarono una proposta di legge per «salvare» l’Italia minuta: comuni sotto i 5mila abitanti, identità fragili, servizi che arretravano. All’epoca parve il lamento degli sconfitti dalla modernità. In realtà era una diagnosi esatta, con terapia indicata. I testi parlamentari di quell’iniziativa ci sono ancora, facilmente rintracciabili sul web. La proposta venne depositata nel 2001; due anni dopo entrò in Aula con un impianto chiaro: semplificazioni amministrative, difesa dei servizi essenziali, sostegni selettivi, niente assistenzialismo. Che cosa c’era in quella visione? L’idea, per nulla romantica, che una rete minima di servizi fa la differenza tra la vita e la sopravvivenza di un paese. Il dibattito d’Aula del 2003 lo dice esplicitamente: guardiamo ai centri multifunzionali, all’accesso al credito, perfino agli uffici postali, vera infrastruttura sociale dei borghi. Erano politiche pubbliche per abitare il territorio. Con la franchezza che serve: le risorse stanziate erano poche, ma il principio era finalmente scritto. Poi la macchina si è mossa a scatti. La legge è arrivata sedici anni più tardi: la 158 del 2017: «Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni». Il testo portava in Gazzetta quello spirito e lo rense cornice nazionale. Dentro c'erano gli obiettivi che oggi tutti ripetono: sviluppo sostenibile, riequilibrio demografico, tutela dei servizi essenziali, recupero dei centri storici. Non un pezzo di poesia, ma l’ossatura normativa per provare a invertire la rotta dello spopolamento. Nel frattempo il Paese ha sperimentato anche un’altra via: la Strategia nazionale per le aree interne. In Basilicata, l’area Mercure–Alto Sinni–Val Sarmento – quella di San Paolo Albanese – è stata perimetrata e dotata di un piano che punta a riportare in equilibrio il saldo naturale e a rendere «conveniente» restare dove le distanze sono lunghe e la densità è bassa. Ma i tempi della strategia sono lunghi e il capitale umano, quando parte, raramente ritorna. Ecco perché San Paolo Albanese è una cartina al tornasole. Qui la profezia di 20 anni fa aveva un secondo tempo: non bastano i soldi, servono presidi. Per tre motivi, tutti verificabili. Primo: la tendenza demografica – più anziani, meno nascite, giovani in uscita – non si governa con bonus episodici. Secondo: i servizi essenziali (posta, medico di base, trasporto scolastico, connettività) sono un ecosistema; se cade un pezzo, gli altri scricchiolano. Terzo: l’identità non è un’etichetta turistica ma un asset economico – se la organizzi in filiere (artigianato, agroalimentare, ospitalità leggera). Qualcuno obietterà: ma una legge del 2017 che cosa ha cambiato davvero?. Ha dato una cornice e ha aperto dei canali. Non ha fatto miracoli. Perché una legge non può aprire scuole se non ci sono bambini; può però finanziare il trasporto, la mensa, il tempo pieno in rete con i comuni vicini. Non può creare un mercato se il reddito medio è basso; può però sostenere la rigenerazione dei centri storici, la rinascita di botteghe, gli spazi di coworking nelle aree interne, la telemedicina di prossimità. Da sola non basta. Ma senza, il vuoto è peggiore. C’è infine un punto politico, nel senso alto del termine. I piccoli comuni sono la più capillare infrastruttura democratica del Paese: lì si vota di più, si conoscono i sindaci per nome, l’imposta locale ha un volto. Se li perdi, non arretra solo un pezzo di economia; arretra la cittadinanza. La legge 158/2017 lo riconosce quando parla di «sistema dei servizi essenziali» e di «valorizzazione del patrimonio storico-culturale». Parole che suonano così: se cade San Paolo Albanese, non perdiamo solo un borgo; perdiamo una funzione della Repubblica. Per questo, dire oggi che Realacci e Molinari avevano ragione non è una carezza retrospettiva. È un impegno operativo. Vuol dire riconoscere che una comunità minuscola può essere laboratorio nazionale. E San Paolo Albanese lo è.

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