IL MATTINO
Il paese che non deve morire/Prima puntata
25.08.2025 - 11:56
Il Mattino di Puglia e Basilicata ha deciso di adottare San Paolo Albanese perché questo borgo di appena 204 anime è un simbolo. È l’ultima frontiera di un’Italia che rischia di sparire senza che nessuno se ne accorga. La frase contenuta nel Piano nazionale delle aree interne – quella che parla di «declino irreversibile» e di una «chiusura dignitosa» – è stata come un colpo di pistola nel silenzio della Val Sarmento. Che suona come resa dello Stato. E non si può accettare. Adottare San Paolo Albanese significa schierarsi dalla parte di chi resiste. È un modo per dire che un giornale non deve soltanto registrare il declino, ma può e deve diventare un alleato di una comunità dimenticata. San Paolo è il comune più piccolo della regione, ma dentro di sé custodisce un patrimonio immenso: la lingua arbëreshë che ancora si parla in casa, il rito greco-bizantino celebrato in chiesa, i costumi tradizionali tramandati dalle donne, le feste popolari che ogni anno riportano emigranti e viaggiatori. Qui non c’è folklore da cartolina, c’è identità. Un giornale che nasce e vive tra Puglia e Basilicata non può permettere che il paese più fragile venga accompagnato al cimitero delle statistiche. Per questo il Mattino di Puglia e Basilicata ha scelto di adottarlo. Non con sterile retorica, ma con una campagna quotidiana che racconterà il borgo per quello che è: un laboratorio di resistenza, un avamposto culturale, un pezzo d’Italia che merita di essere conosciuto. Lo facciamo perché crediamo che raccontare equivale a proteggere. Perché dare voce a San Paolo Albanese significa restituirgli dignità, farlo uscire dall’invisibilità, far capire al Paese intero che se cade lui, cade un intero modello di convivenza. Adottarlo, per noi, significa affiancare i cittadini nella loro battaglia.
La strada che porta a San Paolo Albanese si arrampica lenta, curva dopo curva, sulla valle del Sarmento. Non c’è nulla intorno, solo silenzio, qualche casa abbandonata, il segno evidente di un’Italia che si ritira. Poi, all’improvviso, ecco il borgo: un grappolo di case incollate alla montagna, a 843 metri di quota, poco più di 200 anime che resistono aggrappate a un crinale. È il comune più piccolo della Basilicata, eppure su di lui lo Stato ha già scritto la parola fine. Nel Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne, documento ufficiale che dovrebbe garantire futuro a comunità isolate e fragili, c’è un passaggio che brucia come un marchio: «Accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile». Ovvero: «Un numero non trascurabile di Aree interne si trova già con una struttura demografica compromessa (popolazione di piccole dimensioni, in forte declino,
con accentuato squilibrio nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni) oltre che con basse prospettive di sviluppo economico e deboli condizioni di attrattività. Queste Aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a se stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita». È come leggere un necrologio anticipato. Il sindaco, Mosè Antonio Troiano, non si arrende a questa condanna preventiva. E ha invitato il presidente del Consiglio Giorgia Meloni a venire qui, a toccare con mano le difficoltà, ma anche a vedere il valore della comunità. Parole che sanno di denuncia e di speranza, perché in questo paese ogni giorno è una sfida con l’inesorabile. In un anno la Basilicata ha perso oltre 3.300 residenti, scendendo sotto quota 530.000. Nel decennio 2011-2021 la popolazione è calata del 6,4 per cento. A San Paolo i numeri sono ancora più crudeli: nel registro dei nati compaiono uno o due bambini, mentre le pagine dei decessi si riempiono. Eppure dentro queste mura il tempo non è fermo, è memoria che vive. San Paolo Albanese è un paese arbëreshë, nato nel 1534 da profughi albanesi fuggiti dall’invasione turca. Erano profughi, ma invece di disperdersi si radunarono, piantarono radici e fondarono un paese nuovo che conservasse la loro lingua, i loro costumi, il loro rito religioso. E da allora, cinque secoli dopo, questa identità resiste. Ancora oggi, in chiesa, si celebra con rito greco-bizantino: canti lenti e solenni, icone dorate, croci ortodosse. Ancora oggi, nei giorni di festa, le donne si vestono con abiti arbëreshë dai colori vividi e i bambini imparano le danze tradizionali. È un microcosmo che sopravvive contro ogni previsione, una comunità che si porta addosso la memoria di un popolo disperso e insieme la dignità di un’Italia che non vuole sparire. Camminando tra i vicoli si capisce che l’abbandono non è una metafora. Ci sono case vuote, porte chiuse, finestre con le imposte abbassate da anni. Ma ci sono anche segni di resistenza: il Museo della Cultura Arbëreshe con i suoi costumi ricamati, le fotografie in bianco e nero che raccontano un secolo di emigrazione, gli strumenti musicali che ancora oggi accompagnano le feste. Ci sono anziani che parlano una lingua che altrove si è persa e giovani che la studiano per non lasciarla morire. È questo il paradosso: un paese che lo Stato ha già archiviato come «senza futuro» e che invece conserva nel suo Dna un patrimonio che appartiene a tutti. San Paolo Albanese è minuscolo eppure immenso. È un punto sulla mappa che rischia di scomparire, ma è anche uno specchio dell’Italia intera: se cade lui, cadono insieme decine di paesi, centinaia di comunità, migliaia di storie. Per questo raccontarlo non è folklore, è un dovere. Chi scrive e chi legge deve sapere che qui non si muore di spopolamento: si muore di abbandono. E che la parola «irreversibile», messa nero su bianco in un documento ministeriale, non è destino: è un insulto.
(1. continua)
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