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I 40 anni di "Sotto il vestito niente"

I 40 anni di "Sotto il vestito niente"

"Sotto il Vestito Niente” film di Carlo Vanzina sceneggiato, liberamente, da Franco Ferrini ed Enrico Vanzina, dal romanzo dell' 83 di Marco Parma, pseudonimo di Paolo Pietroni, compie quaranta anni, e li festeggia nelle sale cinematografiche italiane il 4 Agosto. Il film che, in un primo momento, avrebbe dovuto essere girato da Michelangelo Antonioni, vide poi la luce per mano dei Vanzina.
“Sotto il vestito niente” si inserisce nella tradizione del thriller all’italiana, aggiornandolo al gusto patinato e visivo degli anni ’80. Il titolo, volutamente provocatorio (del libro restò solo quello) richiama tanto la sensualità, quanto la superficialità del mondo della moda, che funge da sfondo per un’indagine su sparizioni e omicidi.
In quegli anni ci fu anche un caso di nera che tenne banco per moltissimo tempo, e cioè quello della modella Terry Broome e che uccise l’imprenditore milanese Francesco D'Alessio, nell’84, sotto l'effetto di droga e alcool per quanto le modalità dell’omicidio siano ancora poco chiare.
Alla fine del 2022 la storia è tornata in auge grazie alla trasmissione “Cronache criminali”, di cui sono autrici Flavia Triggiani e Marina Loi.
«Gli anni ’80 - chiarisce a IlGiornale.it Triggiani - segnano l'inizio di una rinascita dopo le lotte politiche e il terrorismo rosso che avevano caratterizzato il decennio precedente. Mi piace dire che Milano stava 'riaccendendo i motori’. E in questa ripartenza la moda faceva da volano per la ripresa economica e sociale, non solo della città meneghina, ma per l'intero Paese. Parallelamente, negli ambienti del jet set milanese, si creò un sottobosco dove il divertimento veniva spesso associato al consumo di droghe e alcol. Nel contesto di quella mondanità fatta di eccessi e sregolatezza si inserì il caso di Terry Broome »
Diventa evidente come questo film, e il libro, siano un documento attendibile dell’epoca, Paolo Pietroni, che ha negato a lungo di essere Marco Parma, è stato anche direttore di “Amica”, di "Max", di "Sette", "fondatore" di "Vanity Fair" in Italia e di “Specchio” ,tra i tanti incarichi assunti, la lista è lunga, quel mondo lo conosceva bene e allora sarebbe stato impensabile descriverlo dal di dentro, essendone parte molto più che attiva.
Il film è stato girato in gran parte a Milano, alcune scene sono state girate a New York, e si muove tra sfilate, servizi fotografici, loft e discoteche: ambienti artificiali, eleganti, ma anche freddi e impersonali, che incarnano perfettamente il concetto di "vuoto sotto la superficie". La Milano degli anni ’80 è il simbolo dell’apparenza, del successo facile, del culto dell’immagine, ma dietro la patina si cela un mondo di cinismo, solitudine e manipolazione.
Tutto ruota intorno all’ambiguità delle identità, ai doppi giochi e al potere dell’immagine. Le modelle sono perfette ma anonime, e persino la verità è spesso solo un travestimento. L’erotismo è centrale, ma non gratuito. È uno strumento narrativo e una critica implicita a un mondo che mercifica i corpi e li trasforma in oggetti da copertina.
Sotto l’apparente glamour, i personaggi vivono una profonda disconnessione.
Il protagonista, Bob, cerca sua sorella in un mondo che non gli appartiene, perdendosi tra maschere e false piste.
Le modelle della storia sono emblemi di un femminile costruito, alterato, a tratti minaccioso, che anticipa il tema del doppio femminile e dell’identità come costruzione sociale.
La regia di Carlo Vanzina è formalmente elegante, costruita su atmosfere rarefatte e su una fotografia molto curata. I colori, spesso freddi e metallici, accentuano il distacco emotivo. Le musiche di Pino Donaggio amplificano la tensione psicologica e l’ambiguità erotica.
Il film si ispira, visibilmente, al cinema di Brian De Palma e al giallo di Dario Argento, ma con una vena più pop, quasi pubblicitaria, in linea con lo spirito di quegli anni.
In questo senso è un film “di moda” nel doppio significato e cioè parla di moda, ma è anche figlio del suo tempo.
Eppure non è solo un thriller con elementi erotici, ma un catalizzatore per l'utilizzo che fa di un linguaggio visivo ricco di simboli, legati alla messa a fuoco del corpo femminile come oggetto, al suo essere maschera e specchio. Infatti gli specchi ricorrono frequentemente nel film e riflettono il tema dell’identità frammentata e doppia delle modelle, che sono tutte proiezioni l’una dell'altra, da qui la perdita di individualità.
Lo specchio diventa anche simbolo del mondo della moda, dove ciò che conta è l’illusione.
Le passerelle diventano così il naturale, palcoscenico, esistenziale di tutto questo, non solo il luogo di lavoro, mentre le modelle sfilano come automi, osservate, giudicate, fotografate.
Insomma la passerella come trappola, non come vetrina di libertà perché chi ci cammina è esposta, vulnerabile, sacrificabile.
Per tutte queste ragioni il corpo femminile, esibito, non è mai veramente "conosciuto", tanto da essere allo stesso tempo oggetto del desiderio e fonte di pericolo, proprio perché la sensualità è ambigua, seduce e minaccia.
Il film gioca con lo sguardo maschile voyeuristico, ma talvolta lo mette in crisi, mostrando il potere manipolatorio di chi è osservato.
C’è da considerare anche l'inserimento del film nel contesto del thriller all’italiana.
Cos'è il thriller all'italiana?
Un sottogenere cinematografico, nato tra gli anni ’60 e ’70, influenzato dal noir e dal cinema di suspense di Alfred Hitchcock.
Le caratteristiche tipiche del giallo italiano sono: gli omicidi misteriosi e stilizzati; la fotografia elaborata e i colori saturi; i protagonisti spesso spaesati o ambigui; le musiche ossessive e memorabili, la forte carica erotica e psicologica; l'uso del punto di vista soggettivo, come la camera che simula lo sguardo dell’assassino.
E poi pur essendo figlio degli anni ’80, il film eredita molti elementi classici del giallo: l’assassino mascherato o con identità nascosta; il corpo femminile come vittima e icona; il senso di paranoia e di inganno; l'ambiente borghese (qui declinato nel mondo della moda) come scenario di morte e di falsità.
Tuttavia lo aggiorna. Lo stile visivo è molto più vicino alla pubblicità dell’alta moda o ai videoclip dell’epoca, i toni sono meno horror e più psicologici/psicosexual. La critica sociale è più marcata, tanto da servirsi della moda come metafora di un’Italia ossessionata dall’apparenza. In questo c’è il senso profondo dell’operazione e cioè essere un progetto cinematografico a metà strada tra il voyeurismo e la critica sociale, in pratica sotto la superficie patinata, il film mette a nudo un mondo vuoto, quello della Milano anni ’80 , il cuore pulsante del consumismo estetico: bella fuori, marcia dentro.
I personaggi, soprattutto le modelle, non hanno passato né futuro, sono oggetti narrativi, ma anche simboli di una gioventù priva di radici e scopo.
Bob, più che la sorella, ricerca se stesso, in un mondo dove i ruoli e le identità sono liquidi e ambigui.
“Sotto il vestito niente” è un film che può sembrare superficiale se preso alla lettera, ma che svela molte più cose di quante ne mostri, proprio perché parla il linguaggio dell’ambiguità, e anche per questo nonostante i quaranta anni trascorsi è ancora fresco, attuale. Pur appartenendo a una tradizione di thriller italiani, è anche una loro revisione aggiornata e postmoderna, dove il vero scopo da raggiungere non è tanto quello di scoprire: "chi è l’assassino", ma di capire: "chi siamo davvero", quando la nostra identità è costruita dallo sguardo degli altri.
Per queste ragioni il film si inserisce anche nel solco tracciato da Brian De Palma e da Dario Argento con delle differenze.
Vediamo quali

1. Il voyeurismo e lo sguardo
De Palma lavora moltissimo sul concetto di guardare (es. Blow Out, Doppio taglio, Vestito per uccidere), ispirandosi a Hitchcock;
Argento spesso mette lo spettatore nei panni dell’assassino o della vittima, con camera soggettiva e dettagli ossessivi;
Vanzina, pur in modo più soft, mostra donne come oggetti da ammirare, ma anche da temere. Le scene di shooting e passerelle sono costruite come atti voyeuristici.

2. La costruzione dell’identità
Nei film di De Palma, i personaggi spesso non sono chi pensano di essere (identità doppie, traumi, travestimenti);
Argento crea incubi visivi in cui l’identità si perde nella percezione alterata del reale.
In “Sotto il vestito niente”, la protagonista femminile (o meglio, la donna ricercata) non è chi appare, e la scoperta finale svela il tema dell’identità come artificio. L'epilogo della storia è uno dei più potenti e drammatici di questo genere cinematografico, al punto di polverizzare qualsiasi altro assassino compreso l'Antony Perkins di “Psycho”, con cui gareggia per intensità e violenza, piuttosto che con quelli, pur potenti, di De Palma e di Argento, ma sono anche loro in debito con Hitchcock.

3. L’ambiente borghese e l’arte come trappola
De Palma ambienta spesso i suoi film tra artisti, attori, fotografi;
Argento colloca la violenza in ambienti culturali (ballerine, scrittori, architetti) ; Vanzina ambienta il suo film nel mondo della moda, dove l’arte del corpo diventa una forma di schiavitù.

4. Differenze sostanziali dal punto di vista della regia
De Palma usa split screen, slow motion, tracking shots elaboratissimi. Il suo cinema è ipercinetico e autoreferenziale;
Argento crea piani sequenza mozzafiato, luci irreali, montaggi frenetici; Vanzina opta per uno stile sobrio, televisivo, meno visionario, ma visivamente curato. È più interessato all’impatto commerciale che alla sperimentazione.

I film di De Palma e Argento creano disagio, tensione, senso del perturbante,
“Sotto il vestito niente” invece genera una tensione più superficiale, spesso estetizzata, è più vicino a un thriller patinato che a un horror psicologico.
Non ha la profondità visionaria di “Vestito per uccidere” né il surrealismo violento di “Profondo rosso”, per quanto Vanzina, nel film, si rifaccia al Dario Argento di “Inferno", ma riporta quegli stessi temi nel mondo della moda, offrendo una lettura contemporanea e pop del thriller d’identità e d'inganno.
Il film non è un capolavoro formale, troppe “le citazioni” sia a De Palma, sia ad Argento, sia ad Hitchcock, ma è uno specchio, mentre De Palma e Argento riflettono sulla percezione e sull’inconscio, Vanzina riflette, spesso inconsciamente, su un'Italia che vive nel culto dell’apparenza.
Ed è questa “incoscienza” la sua cifra stilistica, che poi è la stessa di questo Paese.

Ps: Renée Simonsen all’epoca era fidanzata con John Taylor, bassista dei Duran Duran, e il suo ruolo da protagonista, assoluta, nel film testimonia quanto fosse alta la sua popolarità di modella. Nicola Perring contribuì, non poco, alla diffusione del biondo platino e di un taglio, rasato, maschile, che scardinò per sempre l'idea di una femminilità solo onde o piastra. Era talmente bella da essere un desiderio erotico metrosexual, al punto di doverla fermare per sempre. Franco Moschino fu l’unico stilista a collaborare con Vanzina, gli altri si defilarono. Enrico Lucherini, scomparso da poco, curò il lancio del film. Il commissario Danesi, interpretato da Donald Pleasence, invece diede il via alle serie televisive sui commissari, al punto da fare diventare i libri, che dei commissari ci parlano, casi letterari, a prescindere.
Insomma il film tiene ancora banco, dopo tutto.

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