IL MATTINO
Intervista
29.07.2025 - 13:16
POTENZA- C’è un momento, in ogni generazione, in cui ci si chiede se si è lasciato un segno. Ma ce n’è uno, più profondo, in cui ci si chiede se si è stati visti. È da questa inquietudine – ma anche da un desiderio di riscatto collettivo – che nasce Generazione Cerniera (Come trasformare i rischi in opportunità, Ecra Edizioni, 2025), il nuovo libro di Antonio Candela, ingegnere, cooperatore, imprenditore civile. Non è un saggio. Non è solo una testimonianza. È un manifesto relazionale e narrativo che attraversa precarietà e potenzialità di chi oggi ha tra i 40 e i 50 anni. Una generazione educata al merito e cresciuta nel disincanto, formata come nessuna prima ma spesso esclusa dalle stanze decisionali.
Antonio, perché hai sentito il bisogno di scrivere questo libro e perché proprio ora? Chi è davvero la “Generazione Cerniera”?
«Il libro nasce da un’urgenza personale, ma diventa presto una questione collettiva. È un gesto intimo e pubblico insieme. L’ho scritto perché sentivo che la mia generazione – quella nata tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta – stava scivolando nell’invisibilità. Troppo giovane per comandare, troppo vecchia per essere considerata fresca innovazione. Eppure siamo la generazione che ha tenuto in piedi tutto, spesso senza riconoscimento. Siamo cresciuti nel mezzo: tra analogico e digitale, tra lavoro stabile e flessibilità estrema, tra i sogni educativi dei nostri genitori e una realtà che ci ha chiesto di reinventarci continuamente. Ci avevano detto che bastava studiare. Lo abbiamo fatto, forse più di chiunque altro. Ma non è bastato. Generazione Cerniera è la definizione che ho scelto per raccontare questo stare “nel mezzo” non come una condanna, ma come un potenziale ponte tra mondi che non si parlano più. È un’identità che non chiede pietà, ma responsabilità. La nostra».
Dici che è la generazione più formata della storia italiana, eppure spesso la più precaria. Perché questo scarto tra formazione e riconoscimento?
«Perché il titolo di studio non basta più. Abbiamo studiato, fatto master, esperienze all’estero. Eppure, siamo finiti fuori dalle stanze dove si decide davvero. C’è un dato che racconto nel libro: solo l’8,9% dei manager in Italia ha tra i 35 e i 44 anni, contro il 25% della media europea. Questo non è un errore del sistema. È una scelta strutturale. Una gerontocrazia consolidata.
Ma non siamo solo precari. Siamo anche adattivi. Abbiamo sviluppato una flessibilità che oggi è una risorsa. Siamo una generazione che, pur non avendo avuto garanzie, ha imparato a fare bene le cose tutti i giorni. Ed è questa la vera straordinarietà: la coerenza, la perseveranza, la cura».
Nel libro racconti molte storie concrete. In quale ti sei sentito più “cerniera”?
«Nell’incontro con Giorgio Costantino della BCC Basilicata. Doveva essere un appuntamento tecnico, e invece fu l’inizio di una relazione di fiducia. Non era solo una questione di bilanci o garanzie, ma di visione. Mi ascoltò davvero. E da lì nacquero collaborazioni, amicizia, sviluppo. Ecco: le opportunità non sono doni dal cielo. Sono spesso imprevisti ben accolti.
Lo stesso è accaduto con il Comincenter, da un incontro con Paolo Verri in una passeggiata a Matera. Da una chiacchierata visionaria è nato un centro vero per giovani, opportunità e comunità. Le storie che racconto non sono esempi di successo. Sono esempi di attenzione. Di sguardo lungo».
In un tempo dominato dall’intelligenza artificiale, parli di un’altra intelligenza: quella dell’amore. Che cosa intendi?
«Parlo dell’“algoritmo dell’amore” per contrapporlo agli algoritmi dell’efficienza. Viviamo tempi in cui si celebra la velocità, la performance, l’ottimizzazione. Ma l’innovazione vera è umana, non tecnica. È visione, etica, empatia. È la capacità di mettere insieme competenze ed emozioni. Un martello può fare una scultura o un disastro. Non è lo strumento a fare la differenza, ma la mano che lo usa. L’algoritmo dell’amore è questo: intelligenza collettiva, gentilezza, cooperazione. Ed è il solo modo per tenere insieme ciò che oggi rischia di frantumarsi».
Il libro contiene anche una chiamata all’azione. Non solo una lettura, ma una spinta. A cosa inviti davvero chi ti legge?
«Invito a non aspettare che qualcuno ci dia il permesso. A non vivere in apnea. A non dire sempre “dopo”. Siamo una generazione che ha ancora la possibilità – e il dovere – di incidere. Ma dobbiamo farlo insieme. Non servono eroi solitari. Servono comunità. E poi invito a scegliere il proprio modo di stare al mondo, che nel libro sintetizzo in tre modelli: fare ciò che sai fare (le competenze), ciò che vuoi fare (la motivazione), e ciò che ritieni giusto fare (i valori). Solo quando questi tre piani si allineano, nasce la vera partecipazione».
E ai tuoi figli cosa speri resti di questo libro?
«Che non basta adattarsi. Bisogna scegliere. Che non basta essere bravi, bisogna essere generosi. Che non basta navigare il mondo, ma si può – e si deve – provare a cambiarlo. E che il tempo è la cosa più preziosa che abbiamo. Il modo in cui lo spendiamo racconta chi siamo. E allora, se dovranno scegliere, spero scelgano sempre di restare umani».
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