IL MATTINO
Analisi
03.06.2025 - 13:03
Goffredo Fofi è l’unico intellettuale italiano che ha avuto da sempre delle idee chiarissime sul ruolo degli Agnelli in Italia, ed è rimasto un irriducibile, un ultras in pratica. La cosa di per sé è strana, vista il fior fiore di intellettuali che ci sono stati lungo lo Stivale, ma da quando scrisse la sua storia di Torino, negli anni ‘60, attraverso lo studio della società automobilistica italiana, nessun altro ha fatto altrettanto, a parte i tifosi di calcio non juventini, che da sempre fanno un’equazione poco edificante quando si parla di quello che è il club calcistico più premiato in Italia, e che è di proprietà della famiglia Agnelli.
Non deve stupire questo collegamento perché il calcio, al di là di una lettura superficiale e snob, ha sempre marcato benissimo la sostanza della realtà, solo che poiché è uno sport popolare, che si autoalimenta con iperboliche narrazioni orali, alla fine è sempre preso molto poco sul serio, eppure niente come il calcio consente un'analisi della società rapidissima.
Ed infatti proprio grazie al calcio, quello giocato oggi, che si dibatte tra realtà finanziarie solide e squadre nude e crude, ma con palmares invidiabili, si è arrivati alla fine di un'era che testimonia la fine di un mondo “Agnellicentrico” e la nascita di una nuova borghesia, quella imprenditoriale e professionale del calcio.
Non è colpa del caldo ma è la constatazione di una situazione inimmaginabile anche un anno fa e che invece oggi è davanti ai nostri occhi.
Antonio Conte, fresco vincitore, come allenatore, del quarto scudetto del Napoli, con la presidenza di Aurelio De Laurentiis, e premiato come migliore allenatore del Campionato di Serie "A" per il 2025, è uscito dalla bolla di Torino e ha capito che se ha permesso ad una squadra decima in classifica, lo scorso anno, di battersi per lo scudetto fino alla fine, vincendolo, poteva anche smettere di considerare Tonino il centro del mondo, e non considerare un privilegio potere tornare in quel mondo, dopo avere litigato pesantemente con Andrea Agnelli, così da abbandonare la panchina della Vecchia Signora.
Gli esseri umani quando non sono debitamente considerati sono presi dalla qualunque, e di certo l'anno trascorso non è stato simpatico per il tecnico leccese, e quindi è possibile che abbia accarezzato l'idea di andarsene da Napoli, come sempre sono supposizioni di cui le cronache sportive si nutrono a iosa, e che questo tarlo fosse in testa a lui, pure per un fatto di sudditanza psicologica, visto che Torino e la Juventus sono state casa sua, solo che tutto questo ha cozzato enormemente con la realtà.
E la realtà è che Napoli, città e Aurelio De Laurentiis, gli hanno fatto fare il salto di qualità, e cioè lo hanno reso libero professionista del calcio, borghese tra pari, dove prima era solo un sottoposto, benché titolato e vincente, ma era pur sempre solo un operaio Fiat, né più né meno.
E questo ragionamento ha poi continuato ad espandersi dentro e fuori di lui, al punto che gli altri allenatori di serie "A" sul mercato, che avrebbero potuto andare alla Continassa al posto suo, si sono defilati, un fatto epocale per quanto riguarda questo Paese.
Poi avere raggiunto un accordo economico più favorevole, e la promessa di avere una squadra capace di difendere lo scudetto e anche di andare oltre, hanno avuto la loro importanza, ma pure avere sopra di lui o a fianco a lui, una figura di padrone "classica" che lui conosce e riconosce e con cui continuerà a discutere, ha avuto il suo peso specifico.
E quindi questo bistrattato calcio è riuscito a scardinare un equilibrio eterno, quello che da Torino si è diffuso nel Paese per secoli.
È evidente che il mondo di Torino, oggi, è altro, e la Juventus lo segue a ruota, l'unico che ci rimetterà, forse, sarà Cristiano Giuntoli, lui a quel sogno ci aveva talmente creduto da sentirsi liberato dal peso del Napoli e di Napoli, e invece Antonio Conte con le sue vittorie a muso duro, e una nuova e più forte consapevolezza professionale ha fatto saltare il banco, quello che né la politica, né l'economia, né le inchieste, né gli striscioni sui campi, avevano mai potuto fare.
Poi c’è la moglie di Antonio Conte, la signora Elisabetta Muscarello, che per quanto vivesse anche a Torino è diventata molto amica della signora Jacqueline Baudit, moglie del Presidente, dismettendo pure lei i panni un po’ troppo formali di moglie di operaio Fiat e diventando la moglie del Mister, cose che da adulti contano, hanno il sapore della vittoria, perché essere riconosciuti professionalmente e vivere una vita all’altezza del proprio denaro e delle proprie aspettative è bello, bene, a Napoli ai signori Conte è riuscito.
Goffredo Fofi dovrebbe essere contento di tutto questo, alla fine la classe operaia è andata in Paradiso grazie al calcio, lo sport più elitario e popolare al mondo, rompendo uno schema eterno, forse per sempre e dando in definitiva ragione anche a lui.
Chapeau!
Da un'intervista di Giuseppe Frangi, su Vita, a Goffredo Fofi nel 2001, a proposito del libro di Valerio Castronovo, edito da Rizzoli nel 1999, per festeggiare il centenario della Fiat.
«Fofi: All’inizio anni ‘60. Io venivo dal mondo mezzadrile umbro, mi ero fatto le ossa, politicamente parlando, nella Sicilia dei braccianti. Poi arrivai a Torino, dove ero membro secondarissimo di Quaderni rossi. Quando arrivai, Torino era una città messa sotto una cappa irrespirabile. In quegli anni la Fiat era davvero tutto. C’era l’impressione fisica di essere sorvegliati ad ogni parola che dicevamo, ad ogni passo che si faceva. Dopo gli anni ‘50 tranquilli, quei primi anni ‘60 furono gli anni dell’esplosione, del risveglio operaio. Allora se agli operai parlavi degli Agnelli vedevi balenare l’odio negli occhi. Io stesso una volta sperimentai cosa significava questo regime.
Vita: Che cosa le era accaduto?
Fofi: Era l’anno d’Italia ‘61, quando venne rifatta mezza Torino per celebrare più che l’Unità d’Italia, la Fiat. Avevo 22 anni e venni chiamato a tenere una relazione al Centro Gobetti sulle cooperative operaie. Si trattava di cooperative artificiose costituite d’accordo con l’azienda, da quadri fuoriusciti che assumevano manodopera immigrata e poi la facevano lavorare all’interno della fabbrica, con un grande risparmio per la Fiat e nessuna garanzia sindacale per i lavoratori. Qualche giorno dopo venne a trovarmi Giorgio Agosti, che era stato vicequestore a Torino durante la Liberazione e che allora era diventato direttore della Sip. Mi disse che da voci informate gli Agnelli avevano chiesto un foglio di via per me. Mi stupii: che pericolo potevo comportare io, allora poco più che ragazzo? Comunque me la cavai prendendo residenza in un comune alla porte della città, a Pino Torinese, ospite della famiglia Hutter.
Vita: Uno dei grandi misteri della storia d’Italia che Castronovo non spiega è l’evoluzione del comportamento della sinistra nei confronti degli Agnelli. Da opposizione sociale feroce in quegli anni alla semi idolatria di questi ultimi decenni. Lei come spiega questa trasformazione?
Fofi: Secondo me l’opposizione, a livello culturale, non c’è mai stata. Gli Agnelli e la sinistra hanno condiviso pacificamente un mito deleterio come quello del progresso. E anche Gramsci, che pur aveva sostenuto le grandi occupazioni, al fondo condivideva l’idea che il futuro passasse per la grande elettrificazione e meccanizzazione del Paese. Che poi il progresso per imporsi, usasse i soviet (come pensava Lenin) o il capitale (come pensava Ford), per me, è una questione secondaria. In seguito, stemperandosi la questione sociale, si è arrivati a un vero ossequio. è un atteggiamento da cui non si è salvato quasi nessun intellettuale.
Vita: Anche uno come Pasolini si lasciò abbindolare dal fascino degli Agnelli?
Fofi: Certamente non li criticò mai. Ricordo che una volta Elsa Morante l’aveva rimproverato perché lo riteneva troppo deferente verso la Fiat. Ma dal suo punto di vista c’era anche una coerenza: lui ha sempre guardato all’Italia sottoproletaria e contadina, mai a quella operaia. è stato geniale nell’individuare la mutazione antropologica e ha giustamente spostato la rivoluzione italiana dal 1945 agli anni del boom. Ma la devastazione dell’ambiente lo ha sempre lasciato indifferente. E la Fiat per me è colpevole soprattutto di questo.
Vita: In che senso?
Fofi: Io considero l’automobile un’arma. E siccome sono contrario alle armi sono contrario anche alle auto. L’Italia è un paese auto dipendente, che ha abbandonato le reti ferroviarie per puntare tutto sul trasporto su gomma, come agli Agnelli conveniva. Ma sui danni provocati da un simile sviluppo nessuno dice niente. A parte i morti diretti sulle strade, che ormai raggiungono cifre da guerra mondiale, ci sono i danni indiretti. Oggi il 15% della popolazione mondiale usa l’auto, e il buco nell?ozono è in gran parte dovuto al lusso di questa piccola fetta di popolazione del pianeta. Se questa linea di sviluppo dovesse propagarsi anche a chi oggi ne è escluso andremmo velocemente verso la distruzione della terra. E c’è da esserne seriamente preoccupati, perché la lobby mondiale dell’auto è una lobby davvero potente. Avete notato quante ricerche in questi anni hanno messo in luce i pericoli del fumo. Avete mai sentito un allarme lanciato dopo una ricerca sui danni provocati dall’eccesso di auto? No, perché nessuno le fa.
Vita: Ma c’erano modelli alternativi?
Fofi: Innanzitutto l’Italia ha subito questo modello in modo molto più irrazionale degli altri Paesi occidentali. Abbiamo distrutto le città per renderle a misura di auto, con il risultato che oggi spesso sfioriamo la paralisi. Carlo Levi aveva scritto che la strada è la vera casa degli italiani. Oggi dobbiamo cambiare metafora: la strada è il garage degli italiani.»
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