IL MATTINO
Cultura
23.03.2025 - 18:04
Bernardo Casertano è un attore professionista, e come tale nasce come attore di teatro, e al teatro dedica il suo tempo più prezioso: le pause tra una produzione cinematografica e una produzione televisiva, prendendosi la libertà di condensare lo spazio sul palcoscenico, quello di una sola rappresentazione, che ha il sapore di una messa a punto e di una prova generale di tutto il suo lavoro attoriale.
È il caso di “Charta”, che ha debuttato a Napoli il 15 Marzo, nello Spazio Teatro "Sala Sole", in Vico Freddo, in Rua Catalana 4.
È quindi questa una recensione successiva, il cui scopo è quello di narrare l'attimo più che di "vendere" il posto allo spettacolo, anche perché la sala era piena e di posti non ce ne sarebbero stati.
"Charta" è la storia della paternità di Pinocchio, la marionetta di Collodi che divenne burattino e poi bambino, per via del rifacimento successivo che ne fece lo stesso autore, autore che all'inizio pubblicò l'opera a puntate, nel 1881, sul “Giornale per i bambini”, periodico settimanale e supplemento del quotidiano "Il Fanfulla", nel quale furono pubblicati i primi otto episodi. Collodi decise inizialmente di terminare il racconto con il burattino che, impiccato, «stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito», ma il pubblico non rimase soddisfatto, e così dovette modificare la trama, giungendo dopo due anni al finale noto, e cioè a quel Pinocchio burattino che si trasforma in “un ragazzino perbene” ,in carne ed ossa, consapevole dei propri errori.
Il successo del libro fu tale che la rappresentazione dell’opera fu, ed è stata, costante, tra tutti serve ricordare quelle di Walt Disney e di Luigi Comencini, ma fu Carmelo Bene a riportare Pinocchio alla sua funzione di burattino, per via dei fili che lo avrebbero dovuto tenere in piedi e per via di una narrazione molto più calzante e fedele, nelle intenzioni, a Collodi.
«Pinocchio, che si sottrae tanto alla morte (all’impiccagione, agli assassini…) quanto procrastina la sua “nascita” come bambino in carne ed ossa, resta per Carmelo Bene una evanescenza in divenire, diffratta e scomposta in una serie di maschere-voci: «Sospetto che Bene si sentisse in particolare sintonia col personaggio, proprio in quanto si considerava non nato» (Cappabianca 2012, p. 32). Pinocchio accompagna il suo lavoro come un secondo corpo, che lo eccede, lo prolunga in un’ombra. Nel suo lavoro teatrale c’è sempre “un Pinocchio in più”, come se volesse lavorare all’infinito quel “legno stuprato” dall’ “immagine e somiglianza” con il “nome del Padre”. Tutto ciò fin da quella prima memorabile messinscena del 1962 con il teatro Laboratorio di Roma; quindi nel 1964 al Festival di Spoleto; poi nel 1966 in giro per i grandi teatri dal Verdi di Pisa, all’Alfieri di Torino; e ancora, sempre nel 1966, scrivendo un progetto cinematografico con un Totò-Geppetto e una Brigitte Bardot-Fata Turchina; e poi la versione radiofonica del 1974 e nel 1981 una ulteriore versione teatrale; infine nel 1998 con quel Pinocchio, ovvero lo spettacolo della provvidenza, da cui ricava nel 1999 una edizione televisiva. Nelle prime versioni del suo Pinocchio Bene insisteva sulla indisciplina, sull’irrisione della retorica patriottarda con un beffardo tripudio di bandiere tricolori che invadeva la scena, sul grottesco e sull’oltraggio (il burattino sputava continuamente sulla parrucca di un Geppetto intontito). In una delle prime versioni il corpo bambino veniva catapultato, da un’altalena gigantesca, dalla graticcia fin giù in platea, con i fari che si accendevano del bianco-rosso-verde della bandiera italiana.»
È in questo solco, quello di Carmelo Bene, che si pone lo spettacolo teatrale di Bernardo Casertano, da solo sul palco scarno, con i suoi burattini di "charta", appesi ai fili, come panni da asciugare e polverizzati, all'occorrenza, come se fossero tante piccolissime e sottilissime piume.
Il Pinocchio di Bernardo Casertano è padre, burattino, Fata Turchina, è famiglia e dramma della difficoltà di crescere e di liberarsi dai legacci affettivi, con cambi di registro continui ma lineari, e che portano ad una fiabesca pacificazione finale.
Il pubblico, attento e muto, segue questo stringato e stringente ritratto di famiglia in interno, mentre guarda con maggiore attenzione il burattino, più cavo che mai, che cerca il suo raggio di luce, dentro una vita preconfezionata, prima obbedendo (malgrado gli sia riversata addosso la cantilena della propria inadeguatezza, sia da parte del padre, sia da parte del mondo) poi reagendo attraverso la sua di paternità.
In che modo il tuo Pinocchio si emancipa?
«Innanzitutto serve sottolineare il fatto che il passaggio di Pinocchio, dal legno alla carne, sta a rappresentare la perdita dell'innocenza, e proprio per mantenere l'innocenza Pinocchio prova a diventare genitore a sua volta. Il modo in cui affronta questa emancipazione non mi preoccupa, nel senso che è il suo un percorso interiore, intimo, che ho adattato allo spazio nel quale è stato proposto. Mi illudo così di avere esaltato ed alleggerito ancora di più questo passaggio. E poi c’è questo passaggio di Bene che ho sempre in mente: «Collodi ha realizzato lo smarrimento della sintassi, in certe scorrettezze: ‘la quale’, ‘cui’, messi un po’ a caso [...]. È proprio un discorso tutto musicale, fatto solo di mancanze, afasia totale. La tecnica del non respirare mai, per esempio... Respirare solo all’interno di un parola, e non tra una parola e l’altra... La tonica, la dominante spostata... Non c’è mai una sola cesura » e su questo ho costruito lo spettacolo.»
È difficile diventare genitori?
«Oggi è diventato un peso per chi non riesce ad averli i figli, una pena, il mio scopo è quello di diluire questa pena, attraverso la storia del figlio più famoso della letteratura:Pinocchio, uno che era legato, in tutti i sensi.»
È la tua prima rappresentazione di "Charta"?
«No, Charta è un lavoro chiuso due anni fa. Ha debuttato a Genova, è stato in Sicilia, non era mai arrivato a Napoli. Riprenderlo è stato emozionante. Avrebbe dovuto essere rappresentato in Gennaio, ma mi sono preso un'influenza che mi ha dato filo da torcere. Non ho pensato allo spettacolo, ho capito che "Bernardo persona" aveva bisogno di più attenzioni, e che in generale prendendomi cura di me, il mio lato artistico ne avrebbe goduto, se avessi tralasciato il lavoro e tutto il resto.»
Lo spettacolo è molto poetico ed è davvero un concentrato di esperienze attoriali, al punto che sembra di vedere lo stesso Pinocchio e tutte le sue infinite rappresentazione, quella di Carmelo Bene su tutte, in contemporanea. È davvero il tuo uno studio filologico. Quanto è stato difficile metterlo in scena?
«C'è voluta una grossa tenuta nervosa e avere uno spazio scarnissimo e quasi oscuro, sul quale muovermi, mi ha aiutato a mantenere la concentrazione. Prediligo il teatro povero, quello fatto con pochissime cose. Amo arricchirlo con altro, con suggestioni aggiunte, che arrivino dal testo, dall'interpretazione attoriale, dalla regia e non dagli oggetti scenici, a parte la compagnia, fatta di sagome di charta, come in questo caso. Uso quello che mi è necessario, non ho un registro predefinito. L'importante è che in quel momento ciò che uso mi sia indispensabile. Poi per molte cose come per la scena in sé, mi piace che si crei nell'immaginario del pubblico. Spero sempre che il pubblico riesca ad immaginare il contesto, dove preferisce ambientare ciò che metto in scena. E poi dentro di me c'è l'eco della mia stessa vita sia privata sia sulle scene, sono contento che tutto questo sia arrivato.»
E Napoli in cui non vivi e a cui torni cos’è per te?
«Napoli è una ex fidanzata bellissima, con cui sono rimasto in ottimi rapporti e che ogni volta che ritrovo, mi affascina con piacere ma senza più travolgermi.»
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