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L'intervista

Chi nasce a Molfetta, come Mattia de Gennaro, può sognare che anche a Milano c'è il mare e meritarsi la "gondola" del Memory Ciak al Festival del Cinema di Venezia

"Ho sognato che a Milano c’era il mare” del regista molfettese Mattia de Gennaro vince la sezione Memory Ciak del Premio Bookciak, Azione! 2024.

Il cortometraggio è liberamente ispirato a “Il ragazzo con la tuta blu” di Peppe Lomonaco, edito da LiberEtà. Il regista Mattia de Gennaro, laureando dell’Accademia di Belle Arti di Foggia, nell'intervista ci parla della sua opera cinemtografica e della sua fantastica prima esperienza al Festival del Cinema di Venezia.

La sezione Memory Ciak è realizzata in collaborazione con Spi Cgil Nazionale, LiberEtà e Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD) che fornisce gratuitamente il materiale di repertorio. 

Mattia, qual è stata la genesi di questo cortometraggio?
“Ho sognato che a Milano c’era il mare” nasce a seguito della pubblicazione del bando per la partecipazione alla XIII edizione del Premio Bookciak, Azione!, con l’intento di prendere parte alla sezione Memory Ciak, realizzata in collaborazione con LiberEtà, Spi-CGIL e Premio Zavattini, nella quale ha poi trionfato. Il cortometraggio, liberamente ispirato a “Il ragazzo con la tuta blu” di Peppe Lomonaco (Edizioni LiberEtà), è il risultato di un confronto durato mesi tra me, Davide d’Addato e Gabriele Ciavarella, i quali hanno poi curato i comparti tecnici dell’opera. Nonostante, da ormai tre anni, il nostro lavoro si interfacci con dei ruoli che, per quanto flessibili, sono sempre stati ben distinti, questa volta non abbiamo saputo rinunciare alla possibilità di mettere in relazione le nostre differenze, orientate sia in campo tematico che in quello meramente interpretativo. Abbiamo così deciso di leggere tutti il libro di Lomonaco, a prescindere da chi avrebbe poi scritto la sceneggiatura, e questo ha fatto sì che le interpretazioni scaturite da ognuno ci abbiano poi permesso di cogliere il meglio della storia attraverso le singole esperienze di chi, prima che potesse confrontarsi con l’altro, l’aveva già fatta propria. La nostra era, infatti, l’unica sezione per la quale il premio richiedesse una specifica pertinenza rispetto alla trama del libro selezionato, pur mantenendo il proprio carattere dichiaratamente sperimentale. Non potevamo ancora sapere, né in alcun modo calcolare, il fatto che l’autore di quel libro ci avrebbe poi confessato di essere tornato a commuoversi, pur conoscendo alla perfezione la storia da lui stesso raccontata, grazie ai raccordi di una narrazione palesatasi, sin dal primo momento, non come una copia della propria comparte letteraria, ma come un organo assestante, in grado di parlare per sé e da sé. Ricordo perfettamente che uno dei miei primissimi spunti sia giunto a me da un vorace interesse nei confronti dei bigliettini che, nel corso della storia, il protagonista, Angelo, scrive durante i propri turni di lavoro in fabbrica. Volevo, a tutti costi, sapere cosa ci fosse scritto in quei bigliettini perché ero certo, al contempo, che lì, e solo lì, risiedesse la chiave per una reale comprensione del personaggio e di quello che poi si sarebbe rivelato per me, ma anche per i miei colleghi, il tema pregnante dell’intera narrazione: la lotta che divide Angelo tra la riconoscenza verso la fabbrica, che l’ha salvato dalla miseria del Sud, e l’amore per la sua Annina, nella quale egli scorge un futuro in cui, finalmente, le proprie origini meridionali possano cessare di risuonargli come un’eterna condanna. Probabilmente, la vera genesi del cortometraggio è stata proprio questa: domandarsi se e in quale modo l’amore allevii la paura. 
Quello che mi è piaciuto molto nel cortometraggio è il fatto che le sequenze sembrano essere quadri, ma non vorrei spoilerare troppo. Fantastico l’uso del primo piano sul viso dell’attrice protagonista, Beatrice Fernandes de Sousa (Annina) e l’effetto mare blu.
Siamo stati convinti, sin dall'inizio, che, prima di calarci nei ricordi più intimi della vita di Angelo, dovessimo fare capolino in quella che, ormai, dopo il suo trasferimento a Milano, era diventata la sua quotidianità. Ci siamo permessi di immaginare un mattino, come tanti altri, in cui Angelo, svegliato dalla voce di Annina, venisse colpito proprio dalla luce di cui è irradiato il viso di quest’ultima, che lo accompagna, lentamente, verso una confessione dolce e autentica, che, in realtà, è il mezzo più intimo attraverso cui tornare al primo amore: la sua terra. Per certi versi, sono convinto che le grandi verità della vita, così come i suoi più grandi misteri, passino, principalmente, attraverso le cornici; in quel complesso di visioni, prima assorbito e poi incasellato, in modo che possa essere trattenuto in noi per sempre. Angelo si interfaccia con le sue memorie in un senso quasi museale. Sul volto di Annina è nascosta la verità, il senso autentico dell’esistenza, nello stesso modo in cui in un quadro può celarsi la firma del proprio autore, l’unica, reale connessione con ciò che è stato, ancora prima di esistere. Annina è sempre stata in Angelo, pur non essendoci ancora. La terra di lui, quella veduta su un meridione mai risorto dopo le ferite della guerra e scansato dal violento turbine del settentrione rimane ancorata alla sua vita, nonostante la fuga lo avesse illuso del fatto che non sarebbe più stato così. Per questo motivo, il materiale di repertorio fornito dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD) non ha fatto che elevare il nostro intento. Lì, abbiamo incontrato quel genere d’intimità che è figlia, in egual modo, sia del talamo che della terra, delle sue polveri. La voce di Umberto Jr Contini, in quel suo graffio innocente, seppur così consapevole, ha accompagnato il susseguirsi delle immagini con una fluidità, straordinariamente, naturale. Soprattutto grazie al suo contributo, siamo stati in grado di liberare il suono e l’immagine dal peso della sovrimpressione. Essi, infatti, si tengono per mano, ma proseguono nel rispettivo cammino in modo parallelo rispetto a quello dell’altro. Nel caso contrario, l’esperienza dello spettatore si sarebbe ridotta a un accanito bombardamento dei sensi, che sarebbe finito con il lenire il nostro lavoro, come quello di tutti coloro che hanno accettato di offrire ad esso la propria voce e il proprio volto. Questa storia avrebbe dovuto, dunque, accompagnare lo spettatore per poi lasciarlo a se stesso, nel momento in cui, pur senza rendersene conto, quest’ultimo avrebbe avuto coscienza di cosa stesse davvero affrontando e, soprattutto, in relazione a cosa. Fortunatamente, però, molto sfugge al controllo di chi crea, dando prova del fatto che la vera forza di un quadro risieda nell’occhio di chi lo guarda, di chi, nel tempo trascorso a guardare il quadro, impara anche un po’ a guardarsi. Non saprei dire se Angelo sia davvero in grado di spiegare ad Annina cosa significhi per lui il mare, ma, nonostante ciò, sono certo che Annina lo sappia. Perché il mare è in Angelo e lei lo vede ogni mattina, ad ogni nuovo risveglio. 
Quanto tempo ha richiesto la realizzazione del cortometraggio?
Il lavoro svolto copre un arco che va dai tre ai quattro mesi. Se mi chiedessi di essere preciso, probabilmente sbaglierei. Ma posso dirti con certezza che l’impegno profuso abbia sempre necessitato più del tempo che ci aspettavamo sarebbe stato impiegato per ultimare ciò che avevamo in mente e che, alla fine, ci ha dimostrato che potessimo, comodamente, superare i limiti imposti dalla nostra immaginazione. C’è stato un tempo del pensiero, uno delle decisioni, uno della lettura, uno del confronto, uno della scrittura, uno della fabulazione; un tempo del bianco e un tempo del blu. Sì, perché io ero certo di voler estinguere ogni traccia di nero al cospetto del bianco, mentre Gabriele e Davide, a loro volta, si barcamenavano alla ricerca di una soluzione per tradurre il mio desiderio di raggiungere il mare, lasciandone traccia lì dove nessuno si sarebbe mai aspettato di trovarlo. A seguire, c’è stato il tempo della ricerca, quello dell’assemblaggio, del gioco, il tempo dei volti archiviati e lontani, resi vicini dalla necessità di saperli altro al di fuori di sé, prestati alla nostra storia come inchiostro su un foglio bianco. E, infine, c’è stato il tempo del riempire, il tempo dell’affinare, il tempo delle melodie e il tempo dell’attesa, rotto da un altro tempo ancora, quello del colore, che ci ha visto alle prese con la digitalizzazione di un parte dei frame facenti parte del materiale d’archivio utilizzato, i quali, dopo essere stati stampati, sono stati colorati a mano di blu per poi essere scannerizzati e, nuovamente, inseriti all’interno della timeline, al fine di renderli, finalmente, mare e, allo stesso tempo, immagine di quelle tute blu così care ad Angelo per essere riuscite a far sentire a casa lui che è a casa non ci si è mai sentito davvero.
Dicevo che ho trovato molto adatto il volto dell’attrice che interpreta Annina…
Io credo sia adatto per il fatto che il suo volto, quello, dunque, di Beatrice, mi sia sempre parso innocente, senza chiasmi, privo dei fendenti che sono tipici di certi visi, scavati dalla maturità che, con il trascorrere del tempo, coniuga in segno il trauma della crescita. Poco prima che iniziassimo a girare, ricordo di aver chiesto a tutti gli altri di lasciarmi solo con lei, per un attimo. È una cosa che mi capita di fare, quando mi accingo a girare delle scene che spesso ho l’impressione abbiano un livello di profondità visibile solo a me, almeno nei primi attimi che inaugurano il set. Necessitavo di quel momento con lei perché sapevo che, a un certo punto, Beatrice avrebbe iniziato a guardare se stessa nel riflesso dell’obiettivo e che ciò avrebbe potuto rompere quanto avevamo costruito, fino a quel momento. Avevo, dunque, la necessità di sapere che sarebbe giunta, attraverso il proprio riflesso, in un punto in cui non ci sarebbe stata più traccia di noi, che eravamo attorno a lei per testimoniare questo suo sdoppiamento. Volevo che il risveglio di Angelo e Annina fosse come il primo giorno dell’umanità: la coniugazione perfetta tra la meraviglia e la scoperta continua e incontaminata. Il fatto che, inoltre, nessuno degli attori, compresa Beatrice, dovesse essere, al contempo, nel corpo e nella voce, ritengo abbia aiutato ciascuno di loro a crearsi una personale percezione di ciò che stessero facendo. Lo dico perché sono convinto del fatto che l’innocenza del volto di Beatrice sia stata risaltata dalla consapevolezza dell’interpretazione di Alessandra Quacquarelli, che le dà la voce, conferendo al personaggio di Annina non solo l’apparenza di durare oltre il suo corpo, ma di essere più di quanto è, di meritare più di quanto crede che avrà mai. Allo stesso modo, per quanto ricopra un minutaggio inferiore rispetto a quello di Annina, il personaggio di Angelo è perfettamente incarnato nelle movenze di Davide, il quale, prestatosi alla recitazione per una questione di mera necessità, non si è sforzato, neppure per un attimo, di fingere, garantendo così una certa continuità rispetto a quella sospensione già avviata dal volto di Beatrice e coniugatasi, perfettamente, nella voce di Umberto. Mi piace pensare che, alla fine, Angelo e Annina siano stati solo un pretesto e che, quindi, per tutto quel tempo, io abbia, semplicemente, inquadrato le persone che più amo, nel pieno della loro unione, a cui ho sottratto un bacio al solo scopo di restituirglielo quando avranno dimenticato come fossero a vent’anni e di cosa sapessero le loro bocche, nel tempo del primo amore. 
Nel tuo corto si parla di lotta di classe, di operai che si impegnano per vedere riconosciuti i loro diritti, che effetto fa tutto questo ad un ragazzo della tua generazione che non ha vissuto questi momenti critici del nostro Paese?
Sono molto legato al tema della memoria, difatti ho scelto la sezione Memory Ciak appositamente per continuare a parlarne in chiave cinematografica. Credo che, a prescindere dalle modalità in cui vengano attuate le lotte di classe, esse siano sempre insite nei tempi. Non so se buona parte di noi, e con noi mi riferisco alla mia generazione, che ammetto di conoscere in maniera quasi superficiale, per il fatto di non aver mai sentito di farne parte, riconosca, tutt’oggi, la presenza di un distinguersi netto tra un certo tipo di classi all’interno della nostra società. Lo dico perché – lo ammetto – ci sono volte in cui questo tema lascia perplesso anche a me. Mi domando se, in assenza di una distinzione tra le classi, le lotte, pur silenziosamente, continuino ad esistere o se la demarcazione, imponendo un limite, comporti un’ulteriore differenziazione, sempre più spropositata, tra le condizioni di vita di ciascuno di noi. Una cosa è certa, però: un certo tipo di lotta di classe è terminata, per il semplice fatto che l’abbiano vinta i più ricchi. 
Questo lavoro mi ha permesso di riacquisire una certa consapevolezza circa il fatto che le lotte di classe, a prescindere dal periodo storico durante il quale vengano mobilitate, siano sempre il frutto di una ragione d’insieme. Ecco perché esse continuano ad evolvere, pur lontane dai nostri occhi; perché l’individualismo, coronato da un qualche strano tipo di contemporaneo nichilismo, ci induce a credere, erroneamente, che molti singoli, distanti gli uni dagli altri, non possano corrispondere a un tutto. Al contrario, dovremmo renderci conto che, forse, la nostra lotta debba ripartire proprio dalla volontà di riacquisire un principio di unità in relazione a noi stessi e agli altri, e questo perché, scisso dall'altro, l'essere umano si frantuma e perde se stesso dentro di sé. Viviamo in un momento storico in cui i diritti corrispondono a un privilegio, in cui la catastrofe è quotidiana e trasmessa in diretta e, forse, è proprio questo ad averci impigrito – o meglio, annichilito. Quando si ha tutto sotto gli occhi, ci si arrende nel non voler più vedere oltre le cose. Il cinema, in questo senso, si rivela essere sempre un mezzo salvifico. Per me, girare un film corrisponderà sempre a un atto politico. Fin quando potrò dare l’azione, saprò di essere libero. Questa è la mia, personalissima, lotta. 
In pochissimo tempo hai raggiunto importanti traguardi artistici, ricordo la nostra prima intervista, avevi realizzato AKKA, ed adesso ti ritrovo sul carpet di Venezia, che effetto fa? Ti senti diverso?
Non ho il tempo di domandarmi se e, nel caso, in quale modo, io mi senta diverso o meno, rispetto a un anno fa. Probabilmente, lo sono. Anzi, forse è certo, ma continuo a fare quello che faccio, indipendentemente da ciò, e, ogni volta, questo mi permette di scoprire nuove parti di me. La verità è che mi piace cercarmi e, delle volte, anche perdermi. Lo sento necessario. Ciò che mi assilla, però, è il terrore di dimenticare chi sono stato o dimenticare le cose in generale, finendo poi per essere dimenticato, a mia volta. È un qualcosa che a che vedere con il tempo. Da un certo momento della mia vita in poi ho, infatti, avuto come l’impressione di non aver mai prestato la dovuta attenzione alla conservazione di una memoria personale che potesse essere necessaria a instaurare un dialogo con il tempo che, inevitabilmente, si sarebbe accavallato, a prescindere dal mio volere. È, probabilmente, in questo che percepisco un effetto: nel fatto che, nonostante gli anni passino e che, per mia fortuna, mi vedano fare molte esperienze, questa cosa pare non voglia cambiare; non mi lascia, continua a essere parte di me. Eppure, vorrei tanto convivere con il tempo come si fa con i vicini dispettosi ai quali, in fondo, si è tanto affezionati.
Il tempo non si ferma…
C’è una poesia di Abbas Kiarostami alla quale torno spesso. Dice, più o meno, così: “Come posso dormire in pace se, neppure mentre dormo, il tempo si ferma per un secondo?”. Ci sono volte in cui mi illudo del fatto che solo il cinema possa davvero fermare il tempo o che, più che altro, esso possa ricavare dal tempo una particella di cui noi, disperatamente, necessitiamo e che in molti individuano con il presente. Per me, quest’ultimo può esistere solo per mezzo dell’immagine; ancora meglio, se in movimento, perché come il bacio, racchiuso nella cornice, l’immagine restituisce un attimo che non tornerà, elevandolo a una dimensione indagabile solo all’interno della stasi. A seguito della morte di mia madre, mi sono più volte interrogato circa il valore del tempo in correlazione al lutto. Ricordo che nei primissimi attimi che seguirono quei giorni, non facevo che chiedermi perché tutto non si fermasse, perché la gente continuasse a camminare, a ridere, ad amare; non capivo come riuscissero a muoversi, mentre io non ero in grado neppure di pensare a come sarebbe stato calpestare la terra senza avere la possibilità di voltarmi e sapere che, poco dietro di me, avrei incontrato il suo passo morbido e flebile. Hai ragione, il tempo non si ferma e, come il lutto, si subisce.
Il cinema è stata la tua medicina per affrontare il dolore...
A distanza di un anno, credo di poter affermare, con una discreta sicurezza, che la vera elaborazione del lutto che mi ha colpito abbia avuto inizio nell’esatto momento in cui mi sono reso conto che il cinema potesse concedermi un attimo in più, così da permettermi di contrastare lo scorrere, inesorabile, del tempo. Prima di allora, ho vissuto il mio tormento stretto tra le braccia della mia stessa vulnerabilità, alla quale pochi hanno avuto accesso. Uscivo poco. Mi sentivo osservato, nudo. Tutti sapevano e mi guardavano con occhi famelici. Cercavano la ferita. Volevano capire dove fosse, che aspetto avesse. Tutti sapevano e mi guardavano. Eppure, nessuno mi vedeva, neanche chi, con un’ostinazione, spesso, opprimente, si affannava nel mostrarsi preoccupato per il mio stomaco, per la mia pelle, per le mie immutate abitudini, scegliendo di ignorare il fatto che la mia infermità risiedesse altrove. Probabilmente, al tempo, lo riconobbero a se stessi, ma scelsero, comunque, di convincersi, per un periodo indefinito, che il cibo potesse alleviare il mio dolore, così come i regali e certi viaggi che non farò mai più, riuscendo a persuadere persino me, che, tuttavia, non avrei avuto la forza di respingerli. Ripensando a quei giorni, comparandoli a quelli che si susseguono oggi, in questo mio presente violento e perpetuo, mi rendo conto di non avere mai elaborato nulla. Non ho mai neppure iniziato a farlo. Il cinema mi ha accolto, mentre tutto il resto sembrava non mi volesse più, ma, senza che potessi accorgermene, si è tramutato anch’esso in un deragliamento. E così, più credevo di star tornando a mia madre attraverso il cinema, più, inevitabilmente, mi allontanavo da lei. Poi, però, il cinema mi ha insegnato che nulla finisce quando si smette di vedere e, a quel punto, ho iniziato a chiedermi cosa ci fosse oltre la soglia di ciò che i miei occhi mi suggerivano fosse la fine, il finito. È successo tutto in una maniera talmente delicata da indurmi a credere di essere stato un mero prodotto della mia bisognosa fantasia. Un giorno, mi sono svegliato e, dalla finestra che dalla mia cucina si affaccia sull’atrio interno del condominio, ho notato un movimento insolito. Una donna, sull’ottantina, era sporta al suo balcone e si guardava attorno, come in cerca di qualcosa. Per quanto la sua testa continuasse a vorticare, come il cestello di una lavatrice, il suo sguardo finiva per posarsi sempre e solo in un angolo che non mi era permesso raggiungere, celato dietro le mura di un altro palazzo, attiguo al suo, che creava così il recesso perfetto per la sua ricerca. Alcuni secondi dopo, la donna è rientrata in casa, senza che io potessi capire chi o cosa sarebbe dovuto essere lì dove lei, così insistentemente, lo cercava. Ci ho pensato sino al giorno seguente, quando l’ho rivista, colta nel vortice a cui si era sottoposta il giorno prima, smorzato nello stesso angolo e colto dalla mia stessa infausta cecità. È stato così per tutti i giorni in cui l’ho vista e sono rimasto a osservarla, impaziente di vederla fare qualcosa che, in mia assenza, mi sarei potuto perdere, qualcosa di determinante, che mi avrebbe, finalmente, permesso di capire. Ho persino iniziato a fotografarla, ogni qual volta la vedevo. Poi, ho capito. Ho capito che solo il cinema mi avrebbe permesso di oltrepassare quella soglia, di arrivare dall’altra parte, la sua, dando così un senso al mio guardare, fatto dell’immagine che avevo di lei, ma, al contempo, della rappresentazione di ciò che viveva al di fuori di essa. Questo perché il cinema è ovunque e penetra nell’ignoto a cui sono ancorate le nostre vite, che crediamo così diverse da quelle degli altri, per introdurci a una nuova intimità, fatta di ciò che solo esso può darci, toglierci e restituirci, al prezzo della possibilità di consumare il mondo attraverso il nostro sguardo, mentre il cinema lo trattiene per non lasciarlo morire.
I colori sono una parte fondamentale nel corto, penso al bianco e nero delle riprese e al mare blu…
Per quanto mi riguarda, credo che ogni regista debba intraprendere un'attenta ricerca relativamente a quelli che potrebbero essere i propri colori; ricerca che io sto portando avanti, ormai, da tre anni e che mi costringe, ogni volta, a chiedermi che cosa mi spinga a optare per un qualsiasi tipo di bianco e nero, a discapito di una gamma di colori ben più vasta, che potrebbe, magari, concedermi delle possibilità espressive maggiori. Io, però, vedo in bianco e nero, penso in bianco e nero, e ritengo, inoltre, che, per certi versi, anche la mia scrittura, nella maggior parte dei casi, si presti, solo ed esclusivamente, al bianco e nero; questo perché esso è ben più della trasmissione di un’emozione e più della mera declinazione di un pensiero al cospetto delle geometrie dei colori. In questo caso, abbiamo optato per un bianco e nero molto desaturato, quasi evanescente, a testimoniare una continua rinascita, durante il racconto di Angelo, abitato da un susseguirsi di nostalgie e timori. Desideravo che immergersi nella vita di Angelo e Annina, nella loro quotidianità, nei loro sguardi così intensi e sospesi, fosse pari a un parto. Non facevo che pensare a questa entrata nel nuovo mondo attraverso una visione smorzata dalla luce, abitata da corpi dall’aspetto intenso e irraggiungibile, in cui l’unica voce udibile fosse la nostra, destinata a scomparire con il lento riappropriarsi da parte del mondo delle sue strutture e dei suoi colori. Solo così, nello stesso modo in cui una madre attende tra le braccia il proprio nascituro e Annina manifesta il destarsi di Angelo al cospetto del suo sonno, è possibile giungere in una dimensione in cui non vi è più differenza tra il bianco e nero e il resto dei colori, tra ciò che è reale è ciò che è ricavato, tra il mare e gli operai in lotta, tra il blu e l’ondeggiare di quei corpi per i quali esso è, di certo, qualcosa di più importante di un semplice colore.
È stato emozionante stare a Venezia?
È stato così emozionante da indurmi a credere che, in realtà, tutto ciò non sia mai avvenuto. La prima cosa a cui ho pensato, una volta sceso dal treno, è stata: “Venezia non esiste”. A pensarci ora, faccio ancora molta fatica a crederci. Non ero mai stato a Venezia. Non ci ero mai stato di proposito perché, in verità, e questa è una cosa che sanno in pochissimi, tempo fa, promisi alla mia ragazza che ci sarei andato, per la prima volta, solo se avessi vinto un premio o vi fossi stato selezionato in concorso. Oggi che quel giorno mi è, ormai, alle spalle, mi sembra ancora che quella scommessa sia aperta e che, dunque, grazie ad essa, ci saranno nuove prime volte, con le quali non vedo l’ora di interfacciarmi. Sono felice d’aver, finalmente, dimostrato a me stesso che certi luoghi, per alcuni inaccessibili e, addirittura, neppure sognabili, possano entrare a far parte della propria esperienza personale. Venezia non esiste, questo è certo, ma, se proprio esistesse, allora mi ricaverei un piccolissimo spazio affinché, qualora ne sentissi il bisogno, io possa sempre tornare al preciso momento in cui, dopo aver ricevuto il premio e averlo dedicato a mia madre, sono corso in platea per abbracciare mio padre; un abbraccio che, di ritorno al mio posto, ho lasciato sulle spalle anche di Umberto, Davide e Gabriele. Penso a questo momento perché, per l’intera durata della nostra permanenza a Venezia, non facevo che pensare al fatto che Davide, Gabriele e io, due anni fa, fossimo solo tre studenti al primo anno di accademia, ignari del fatto che i nostri sogni si sarebbero presto trasformati nei ricordi per cui saremmo stati più grati, probabilmente, per tutta la vita. Io sarò grato a loro, per sempre. Questo è certo. Perché non ce l’avrei mai fatta senza il loro estro, le loro risa e neppure senza i loro sguardi perplessi che mi raggiungono ogni qual volta gli poggio una mano sulle spalle per rendermi conto che sì, siamo ancora insieme; così come ho fatto sul nostro primo vaporetto verso il Lido, nella nostra camera d’albergo e persino davanti al pannello delle Giornate degli Autori, prima che un esercito di fotografi ci suggerisse chi dovesse stare dove e in quale posizione. Fotografi permettendo, io sogno di averli sempre al mio fianco, perché non c’è cosa più preziosa d’avere accanto a sé persone in grado di guardarti senza parlare e, con un solo battito di ciglia, riuscire, comunque, a dirti tutto che vorresti sentire. 
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